HomeRecensioni

Siracusa applaude le lotte impari di Prometeo e Medea, gli antieroi che sfidano i poteri forti

Recensioni Con "Prometeo incatenato" di Eschilo e "Medea" di Euripide la 58a stagione di rappresentazioni classiche dell'Istituto nazionale del dramma antico al Teatro greco è partita nel segno dello scontro feroce fra due antieroi che non temono di mettere a repentaglio le proprie sorti personali o di lasciare terra bruciata dietro di sé, pur di non scalfire di un nulla il proprio rifiuto delle regole imposte dagli dei e dagli uomini

Da che mondo è mondo, c’è chi vince e c’è chi perde nella lotta contro i poteri costituiti, i poteri forti si direbbe con un’espressione contemporanea. La 58a stagione di rappresentazioni classiche dell’Istituto nazionale del dramma antico al Teatro greco di Siracusa è partita proprio nel segno dello scontro feroce fra due antieroi – Prometeo e Medea – i quali non temono di mettere a repentaglio le proprie sorti personali, il primo, o di lasciare terra bruciata dietro di sé, la seconda, pur di non scalfire di un nulla il proprio irrinunciabile credo e il conseguente, altrettanto mai rinunciabile, rifiuto delle regole imposte nell’un caso dagli dei e nell’altro dagli uomini.
Finisce per essere una guerra ideologica fra mondi e civiltà quella cui i due folti pubblici delle due prime – giovedì 11 e venerdì 12 maggio – hanno assistito ai piedi del colle Temenite. C’è sempre bisogno di parteggiare per una o l’altra anima della tenzone, e l’Italia è maestra di scontri epocali mai risolti.

Prometeo vs Zeus, si lotta per il futuro

Alessandro Albertin (Prometeo) con Silvia Valenti (Bia), foto Franca Centaro

E’ proprio una visione del futuro quella che si gioca nel “Prometeo incatenato” di Eschilo, in scena a giorni alterni fino al 4 giugno. Il titano Prometeo – divinità della stirpe che precedette gli dei dell’Olimpo, colui che divenne archetipo dell’intelligenza mista a ingannevole furbizia, e che lo stesso Platone ci narra creatore dell’uomo impastato dall’argilla mista al fuoco divino -, sfida la contraria volontà e le conseguenti ira e minacce del capo degli dei – l’iracondo, irrazionale e despota Zeus, riportando il fuoco divino agli amici umani permettendo loro il progresso. Da qui il suo triste destino.

Il Teatro greco di Siracusa durante il “Prometeo incatenato”

Il regista Leo Muscato, forte della drammaturgia di Francesco Morosi, come mito impone, incarna Prometeo come l’eroe che si schiera contro i più forti (gli dei) al fianco dei più deboli (gli uomini) nonostante questi ultimi finiscano per tradire il nobile fine del titano (il fuoco come dono per fare)  “uccidendo” l’ecosistema (la necessità) con una dose eccessiva di “tecnologia” industriale diventata cinico mezzo di speculazione e non più volano di progresso. Un’idea “green” della tragedia che detta la scena firmata da Federica Parolini che ci trasporta in una terra di nessuno, ai confini della (in)civiltà, un cimitero arrugginito di inquinanti rottami post-industriali.

Il coro delle Oceanine e Prometeo, foto di Maria Pia Ballarino

Bella l’idea scenografica, peccato però, che il rispetto della staticità del testo diventa prevalente su un guizzo registico – flash luminoso-sonori che esternano le ire di Zeus a parte – che avrebbe certo resto la fruizione più godibile. Anche perché, la scelta di Alessandro Albertin nel ruolo del protagonista ha un difetto non da poco: aggiunge staticità alla scena più statica delle tragedie greche. L’attore veneto, fisico possente degno di un titano, seppur “condannato” a vivere l’intera messinscena “legato” su una ciminiera che sostituisce la rocca della Scizia che il testo di Eschilo tramanda, eppur “comandato” a dare col solo potere della parola il senso della fiera opposizione filosofica e morale al disegno olimpico di Zeus (reinventare il genere umano con uno più debole e consono ai capricci divini), non ha la forza emotiva per esaltare il testo, tradotto in maniera conciliante fra antico e moderno (con leggera enfasi sul secondo) dal professore della musica Roberto Vecchioni. Eppure la parola del protagonista doveva rappresentare l’unico momento di “movimento”, quantomeno interiore, della messinscena. Per gran parte di essa manca il pathos, può sembrare semplicistico dirlo, ma è così. L’eroe scivola a antieroe, e se alla fine il destino lo vuole soccombente, sembra quasi meritarselo per mancanza di idonea autodifesa.

Silvia Valenti (Bia), Davide Paganini (Kratos), Michele Cipriani (Efesto) e Albertin/Prometeo, foto Maria Pia Ballarino

Deboli i contraltari maschili di Prometeo. Oceano nella interpretazione di Alfonso Veneroso aggiunge sì leggerezza al tutto, ma la macchietta è dietro l’angolo.

Alfonso Veneroso (Oceano), foto Franca Centaro

Kratos (il potere, interpretato da Davide Paganini) ed Efesto (Michele Cipriani) sono due camei che non lasciano il segno. Ha una sua dignità Ermes (Pasquale Di Filippo), un folletto punk&queer che cerca di ammansire il titano, riportarlo al “senno” più consono al suo rango divino e soprattutto carpirne (invano) il “segreto” su Zeus che il titano dichiara di conoscere. «L’arroganza da sola non serve a niente» commenta Ermes, la “hybris”, o l’eccessivo orgoglio del titano, diventa arroganza agli occhi dei suoi nemici.

Pasquale di Filippo (Ermes), foto Aliffi

Saranno le donne della messinscena a salvare la grandezza morale del gesto del protagonista. E’ un gran bel coro quello delle Oceanine formato dalle corifee Silvia Benvenuto, Letizia Bravi, Gloria Carovana, Maria Laila Fernandez, Valeria Girelli, Elena Polic Greco (capo coro), Giada Lorusso, Maria Pilar Perez e Silvia Pietta e dalle coreute Giulia Acquasana, Marina La Placa e Alba Sofia Vella. Semplici ma efficaci i loro costumi firmati da Silvia Aymonino, belle le movenze (le coreografie sono di Nicole Kehrberger), intensi i canti sulle musiche di Ernani Maletta, un tappeto sonoro dove il Medioevo sacro incontra le ritualità canore territoriali, che ricorda la svolta world music dei Dead Can Dance, vecchi paladini dell’ambient gothic.

Il coro delle Oceanine, foto Maria Pia Ballarino

Bellissimi il canto primordiale e la danza di Io (l’attrice turca naturalizzata italiana Denise Ozdogan, chi se non lei per incarnare colei che diede il nome al Bosforo ovvero il “guado della giovenca”?), la donna tramutata in mucca e tormentata dal suo continuo vagare, poi terminato in Egitto, per colpa del tafano voluto da Era, la sposa di Zeus che non accettava l’adulterio con la giovane sacerdotessa. E’ una parola straziata la sua, ma tra sfiati e gesti animaleschi, alla fine è la prima a strappare gli applausi convinti del pubblico. A lei Prometeo, il preveggente, racconterà il suo destino e il tortuoso futuro di Zeus. Bellissimo il nuoto di Io sulle Oceanine, e la sua sofferta uscita di scena è memorabile quando risale dalla scalinata opposta a quella dove era discesa, a simboleggiare il suo continuo peregrinare. «Non si può sfuggire al potente Zeus» la chiosa delle Oceanine.

Deniz Ozdogan (Io), foto Franca Centaro

Nel finale in crescendo che segna la sciagura del titano ribelle (e qui Albertin riscatta la sua recitazione) il proscenio si infuoca: «Il cielo è solo un fuoco infinito». Silvia Valenti, dopo essere stata Bia (la forza) a inizio tragedia, torna con le sembianze dell’aquila, il cane alato di Zeus: il suo compito è rodere all’infinito il fegato di Prometeo.

Silvia Valenti nei panni dell’aquila di Zeus, foto Michele Pantano

L’apocalisse delle profondità senza fine del Tartaro è lì pronta ad accogliere la rocca e il Titano ad esso incatenato. Alla fine il pubblico si lascia andare in lungo applauso, forse liberatorio per la tensione vissuta in scena.

Il momento finale del “Prometeo incatenato”, foto Michele Pantano

Il progresso, però, non si ferma mai. Ci vorrà qualche migliaio d’anni prima che Eracle liberi il titano dai suoi tormenti. Chi vivrà vedrà… Il teatro greco di Siracusa attende il sequel.




Le “sliding doors” di Medea

Laura Marinoni è Medea, foto Franca Centaro

E se di mondi contrapposti parliamo, sono le visioni antagoniste sul passato, da cui dipendono le “sliding doors” del presente e quindi del futuro, a dominare le pulsioni incontrollabili di “Medea” di Euripide, in scena a giorni alterni fino a sabato 3 giugno e poi dal 10 al 24 giugno. Il dramma della follìa d’amore di Medeaincarnata da una credibile Laura Marinoni (ormai una certezza per Siracusa) capace di riportare in scena la dicotomia dissennata di una donna combattuta fra desiderio di crudele vendetta nei confronti dell’ex marito Giasone e della stirpe di Glauce, promessa sposa di quest’ultimo, e la necessità di un più ragionevole destino per tutti rappresenta, come il regista Federico Tiezzi ha anticipato, lo scontro non fra due persone ma fra due mondi, ormai inconciliabili, segnati, ciascuno dei due a modo proprio, dalla violenza.

Violenza arcaica, quindi fisica, quella di Medea; violenza quasi contemporanea quella di Giasone, ben rappresentato, nel dramma borghese che Tiezzi ha concepito per Siracusa, dall’inutile e forbita eloquenza del personaggio che nella recitazione un po’ algida ma efficace di Alessandro Averone, raffigurato come un capitalista novecentesco desideroso solo di benessere economico innanzitutto per sé (ma anche per la famiglia allargata), cerca di far capire a Medea – barbara della Colchide, maga e donna (tre elementi di assoluta inferiorità nella Grecia dei tempi) – che il suo futuro benessere, dovuto alle nozze con la figlia del re di Corinto Creonte, è un bene per tutti, Medea compresa e per i loro figli che avranno parenti di sangue reale.

Medea (Laura Marinoni) e Giasone (Alessandro Averone), foto Franca Centaro

Un discorso che nell’era odierna dei rapporti fluidi e cangianti “sposerebbero” anche quelle donne più attente al wellness che ai sentimenti: cosa chiedere di più dalla vita? Non Medea, l’anima ancestrale di questa storia, che si annuncia fuori scena con grida strazianti, ed entra da protagonista, regale, protetta dal suo mantello blu e dalla maschera di corvo, non solo uccello portatore di malasorte nelle millenarie credenze popolari ma animale scientificamente poco sociale e soprattutto monogamo fino alla morte. «Noi donne siamo le creature più infelici del mondo» sentenzia Medea, perché troppo incerta la sorte del matrimonio legato al “buono o cattivo marito” che una si ritrova nella vita. «Io preferirei abbracciare lo scudo di guerra che partorire una sola volta» sottolinea mettendo in guardia sui suoi funesti progetti che intendono punire col sangue l’abbandono del “patto” nuziale da parte di Giasone.

Laura Marinoni in “Medea”, foto Maria Pia Ballarino

Il bianco e nero della scena aperta, firmata da Marco Rossi, raffigurante una stilizzata magione signorile, mette subito in chiaro le cose: questo è un palcoscenico manicheo, tutto il bene sta da una parte e tutto il male dall’altra, a prescindere da chi abbia veramente ragione. Lo specchio antistante riflette le vere coscienze dei protagonisti al di là delle apparenze.

Il Teatro Greco di Siracusa al debutto di Medea

I due contendenti si ritrovano agli estremi del lungo tavolo che manco quello ufficiale di Putin tiene così lontani. In fondo giocano ad armi pari, la spudoratezza è l’elemento che li accomuna e il dramma rischia di diventare melodramma. Spudoratezza fredda e cinica quella dell’uomo greco, che in fondo orientale è, e quindi anela all’harem che ogni proto-maschilista coltiva in sé, e non esita a mettere sul piatto parole di “moral suasion” miste a fisiche attenzioni verso la ex consorte, perché la bellezza muliebre è bellezza tout court, al di là dei ruoli sociali. La spudoratezza della donna barbara, invece, è calda, torrida e si esplicita in un sonoro «bastardo» reiterato sei volte per il riso e la gioia di tutto il gentil sesso che affolla gli spalti del Teatro greco: «Sono io che ti ho salvato, e tu bastardo mi hai tradito, mi hai giurato il falso».

Alessandro Averone (Giasone) con Laura Marinoni (Medea), foto Michele Pantano

Un insulto che viene dal cuore e che si fonde con la sapiente arte della seduzione che una donna, per giunta maga, sa come esternare: non sarà un bacio passionale a salvare Giasone! Il fine è far sì che il contraltare maschile, giudicato troppo stupido per capire, non sospetti minimamente che il vero obiettivo fisico di Medea, in fin dei conti, non è lui, ma tutti i suoi più cari affetti: la futura sposa Glauce, il padre di lei Creonte, e soprattutto i figli Mermero e Fere, interpretati da Matteo Paguni e Francesco Cutale, bambini che arrivano in scena accompagnati dal pedagogo (Riccardo Livermore), con la testa di coniglietto bianco, simbolo di purezza e innocenza.

Debora Zuin (Nutrice), Riccardo Livermore (pedagogo), e Matteo Paguni e Francesco Cutale (i figli Mermero e Fere), foto Franca Centaro

La purezza che sarà violata dal crescente desiderio di vendetta di Medea è sottolineata dalle belle musiche originali del coro e del prologo composte da Silvia Colasanti con la collaborazione del Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma. Si inizia con un coro spiritual dalle sfumature afro, per procedere con la solennità barocca che sfocia nel finale di “Lacrimosa” che aggiunge pathos al pathos.
Laura Marinoni non fatica a tener testa alla guerra iconoclasta contro gli uomini di Medea. Non sarà neanche il minaccioso approccio – tipico degli uomini di potere – con tanto di testa di coccodrillo di Creonte, padre di Glauce e re di Corinto, a destar paura e rispetto in Medea per i “più forti”. Creonte ha il volto di uno straordinario Roberto Latini, attorniato dai suoi scagnozzi-coccodrilli, che con una gestualità storta e ansimante aggiunge dramma al dramma. La parola ammaliante della maga, però, ammansisce anche il re-coccodrillo il quale dall’alto della sua “forza”, nonostante lei abbia detto peste e corna della stirpe reale, concede il fatidico giorno in più prima dell’esilio alla donna “nemico numero uno” di Corinto, quelle 24 ore che le serviranno per compiere i piani di morte. «Sei maga sapiente, sei donna esperta in ogni azione di male» si autocelebra Medea.

Laura Marinoni con Roberto Latini (Creonte), foto Aliffi

Nessun uomo si salva in questa visione del mondo, neanche l’accomodante Egeo, re di Atene, un elegante Luigi Tabita, abito bianco con ombrello da viaggiatore novecentesco, il quale non sfugge neanch’egli ai piani di Medea che lo individua subito come colui che le darà un futuro certo una volta fuggita da Corinto.

Luigi Tabita (Egeo) con Laura Marinoni (Medea), foto Franca Centaro

Come in “Prometeo”, sono le donne anche questa volta a prevalere. La nutrice (Debora Zuin) esprime bene la preoccupazione per la possibile vendetta della sua padrona. Il coro delle donne corinzieFrancesca Ciocchetti e Simonetta Cartia (capo coro) affiancate da Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini e Claudia Zappia rappresentate come serve la cui unica preoccuzione è far sì che la magione signorile sia pulita e irreprensibile, non sbaglia un colpo nell’esprimere in un primo momento solidarietà alla donna straniera abbandonata al suo destino e costretta all’esilio, e in seguito condanna quando la implorano di non uccidere i suoi bambini.

Medea e il coro delle donne Corinzie, foto Michele Pantano

Strappa applausi il Nunzio (Sandra Toffolatti) nel suo drammatico racconto delle sofferenze patite da Glauce e dal padre Creonte vittime dei sotterfugi velenosi di Medea, un crescendo dai toni quasi horror, financo splatter, che danno il “là” all’esito finale della tragedia.

Sandra Toffolatti (il nunzio), foto Maria Pia Ballarino

Luci rosse calano sinistre sulla scena e annunciano l’atroce delitto dei due bambini, crimine necessario per togliere ogni discendenza all’amato-odiato antagonista, che si consuma lontano dalla vista ma non dal cuore, e le lunghissime (forse troppo) urla di dolore e di terrore arrivano a sovrastare il contraltare canoro del coro che intona il “Meine Ruh’ ist hin” di Schubert, il lied dove Margherita, col cuore angosciato, ripensa alle promesse di Faust e alla sua pace che è andata via per sempre: «Non esiste un essere umano che sia felice, felice mai» sentenzia Medea.

Il coro durante la scena della morte dei bambini, foto Aliffi

Le scenografia si solleva, il palazzo signorile crolla. Le serve di casa (il coro) lavano col sangue e non dal sangue. E’ tutto finito? Per Giasone sì, che piange e si dispera per aver perso in un attimo padre, futura sposa e soprattutto i figli e futuri discendenti.

La vendetta di Medea è compiuta, foto Aliffi

Non per Medea che si elèva sul carro del Sole fornito dal dio Elio, suo nonno, per raggiungere il futuro sposo Egeo ad Atene. Ecco l’unica pecca della messinscena, il carro non è un elemento scnico ma un banale e brutto cestello da ristrutturazione edile agganciato ad una gru il cui camion è stato visibile dal pubblico sin dall’inizio, inquinando la bellezza della scena.

Applausi scroscianti sui saluti finali  accompagnanti da “The Host of Seraphim” dei Dead Cand Dance, il misticismo ancestrale che alberga in ciascuno di noi. Sempre loro, i Dead Cand dance, il giorno prima citati a modello, il giorno dopo omaggiati direttamente. E i morti sulla scena del Teatro Greco di Siracusa hanno sempre un passo di danza da farci ricordare…




L’Inda si fa in quattro al Teatro greco di Siracusa e guarda al Pnrr

Condividi su

Commenti

WORDPRESS: 0

SicilyMag è un web magazine che nel suo sottotestata “tutto quanto fa Sicilia” racchiude la sua mission: racconta quell’Isola che nella sua capacità di “fare”, realizzare qualcosa, ha il suo biglietto da visita. SicilyMag ha nell’approfondimento un suo punto di forza, fonde la velocità del quotidiano e la voglia di conoscenza del magazine che, seppur in versione digitale, vuole farsi leggere e non solo consultare.

Per fare questo, per permettere un giornalismo indipendente, un’informazione di qualità che vada oltre l’informazione usa e getta, è necessario un lavoro difficile e il contributo di tanti professionisti. E il lavoro in quanto tale non è mai gratis. Quindi se ci leggi, se ti piace SicilyMag, diventa un sostenitore abbonandoti o effettuando una donazione con il pulsante qui di seguito. SicilyMag, tutto quanto fa la Sicilia… migliore.