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La Sicilia che canta da 33 anni ha la voce di Kaballà: «La visionarietà di “Petra lavica” ha fatto incontrare pop e dialetto»

Musica Intervista al cantautore e autore calatino-etneo Giuseppe "Pippo" Rinaldi, per tutti Kaballà, che in questi giorni sta celebrando la ristampa del disco d'esordio "Petra lavica" del 1991, tra i primi esempi di scrittura pop-rock e vernacolo. Dopo la fortunata presentazione catanese del progetto, prima che il nostro tornasse a Milano per la seconda presentazione in calendario il 28 novembre, non si poteva non approfittare della sua presenza a Catania per un confronto a tutto tondo fra ieri, oggi e domani

Ci sono momenti nella vita in cui un flashback ti restituisce un motivo in più per sorridere. L’opportunità che mi ha dato l’amico Nuccio La Ferlita – da 35 anni circa uomo della musica in mille progetti nati a Catania ed oggi manager dell’agenzia Puntoeacapo Concerti, tra le principali in attività in Sicilia – di moderare la presentazione della ristampa di “Petra lavica”, l’album d’esordio di un altro amico della musica – Giuseppe “Pippo” Rinaldi per il mondo intero Kaballà -, progetto prodotto da La Ferlita insieme con Mario Cianchi e Paolo Corsi, non è stato per il sottoscritto solo un emozionante rituffarsi in una pagina di storia recente della musica ma un momento collettivo di intenso ritrovarsi al Palazzo della Cultura della città etnea fra amici e fan del cantautore e autore calatino di radice e catanese di formazione. Attraverso i racconti che Pippo ha snocciolato di quell’epoca d’oro della musica pop Made in Sicily, i primi Anni 90 del secolo scorso, quello che è scattato in tutti coloro che eravamo là è stato il desiderio di testimoniare che anche noi ci siamo stati in quegli anni a dar manforte a quell’alito di creatività tutta etnea, ciascuno col proprio ruolo, di fan, amante della musica, giornalista nel mio caso, etc.

Pippo Rinaldi noto nel mondo della musica come Kaballà, foto di Luigi Saitta

Trenta tre anni sono passati da quel debutto, nato alla fine di un secolo e di un millennio che ha voluto dire tutto e forse in parte ci è riuscito. Riparlare oggi, però, di quel connubio perfetto fra istinti rock, vezzi ludici del pop e radici linguistiche isolane ha ancora un senso e l’occasione di farlo, grazia alla ristampa di un disco che è diventato una pietra miliare del pop-rock italiano, insieme col suo protagonista, Kaballà, affiancato sul palco da amici musicisti che quella fortunata stagione sicula della musica hanno alimentato da quel momento in poi – Carmen Consoli in primis, e poi il cantautore saccense Ivan Segreto – è diventato un valore aggiunto. Un incontro, quello catanese, che è stato corroborato dalle suggestioni di protagonisti evergreen della scena pop-rock-folk-world siciliana come Mario Venuti, Luca Madonia, Carlo Muratori, dall’analisi storico-linguistica del professore Gianfranco Iannizzotto, dalla testimonianza di un rapper di frontiera come Enzo Benz col suo dialetto-slang stradaiolo, dal commento, tra amarcord e prospettive per il futuro, dell’operatore del settore come La Ferlita e dalla forza “musicale” della parola “cuntata” dell’attore e cuntista palermitano Salvo Piparo. Altri protagonisti di ieri e di oggi del connubio dialetto e pop erano presenti al Palazzo della Cultura, da Puccio Castrogiovanni e Johnny Allegra dei Lautari al rapper L’Elfo.

La nuova edizione di “Petra lavica” di Kaballà

Adesso la promozione di “Petra lavica” Remastered edition 2024, vinile giallo a tiratura limitata, cd e piattaforme on line, si sposta a Milano, dal lontano 1977 casa di Pippo Rinaldi, ben prima che diventasse l’apprezzato cantautore e autore per altri che tutti conosciamo. L’appuntamento è per giovedì 28 novembre, alle 18.30, alla Cascina Sant’Alberto della città meneghina.

Passato, quindi, il momento di festa della presentazione catanese dell’album, non si poteva non approfittare della presenza di Kaballà a Catania per un confronto a tutto tondo.

La presentazione di “Petra lavica” al Palazzo della Cultura di Catania. Seduti, da sinistra Luca Madonia, Ivan Segreto, Mario Venuti, Carmen Consoli e Gianfranco Iannizzotto. In piedi Gianni Nicola Caracoglia e Pippo Rinaldi in arte Kaballà. Foto di Lavinia D’Agostino

Dammi un commento dell’evento di martedì sera al Palazzo della Cultura di Catania.
«Mi ha gratificato molto, ho sentito veramente affetto e stima, e queste due cose combaciavano. Significa che a distanza di questi 33 anni è passata tantissima acqua sotto i ponti, ma certe cose che hai seminato rimangono. Rimane il rapporto con le persone, che sono gli amici, che sono coloro che ti hanno ascoltato, e questo mi gratifica molto di più della stima, devo dire la verità. Ma anche la stima, non è mancata, anzi…».

L’ingresso all’evento per Kaballà al Palazzo della Cultura di Catania, foto di Giovanni Guzzetta

Affetto e stima a Catania non sono mancati anche perché, nonostante sei milanese da 47 anni, la tua parte, diciamo, etnea, non muore mai.
«In tutti questi anni non è che la mia parte etnea non l’ho alimentata! I miei genitori hanno vissuto a Catania finché mio padre è morto 12 anni fa e mia mamma 5 anni fa ha raggiunto me e mia sorella a Milano. A Catania ho amici molto importanti, che hanno segnato una parte importante della mia vita, e non parlo solo di amicizia tout court, ma anche di contatti importanti da un punto di vista musicale. La mia formazione musicale è avvenuta a Catania perché la formazione musicale si fa quando hai 13, 14 anni, quindi è avvenuta qui con tutto quello che poteva succedere e che abbiamo appena raccontato l’altra sera al Palazzo della Cultura».

A sinistra Gianluca Rotondo e Ada Rossi, i protagonisti del video di “Petra lavica”, e a destra, seduto, Nuccio La Ferlita. Foto Giovanni Guzzetta

 

Per questo hai voluto presentare il disco a Catania prima che a Milano?
«Un disco che si chiama “Petra lavica” non poteva essere presentato prima a Milano. Beh, l’ho voluto presentare qui perché Catania rappresenta comunque l’inizio di tutto. La canzone “Petra lavica” è nata a Catania in un momento mio di ritorno, il testo io l’ho scritto in aereo, ritornando a Milano. Improvvisa è scattata qua la scintilla di questa idea, che comunque già era in gestazione da tempo per via di ascolti e riferimenti vari. Quindi chiaramente la radice è qua, la pietra lavica è qua, lo Stretto è qua. La mia vita musicale già si svolgeva a Milano per vari versi, quindi è stato un processo assolutamente naturale: la gestazione e il parto è stato qua ma la crescita è stata fatta con l’ambiente che mi adottava, che era quello milanese, e da lì sono arrivati i produttori del Nord, i musicisti milanesi con poche aggiunte – vedi Giancarlo Parisi – che afferivano al mondo musicale siciliano».

“Petra lavica” di Kaballà, un album evergreen che ha fatto ritrovare la Catania della musica

Da sinistra Ivan Segreto, Gianni Caracoglia, Kaballà, Carmen Consoli e Gianfranco Iannizzotto. Foto di Lavinia D’Agostino

Non sono state subito rose e fiori, il “magma” di “Petra lavica” ha dovuto attendere un po’ prima di emergere.
«La canzone è stata incisa in una cassetta e per un anno non ha avuto destinazione. All’inizio pensavo dovesse essere una cosa collettiva, che non riguardasse solo me ma era un episodio, senza alcuna chiarezza. Poi a un certo punto la svolta, per via delle persone che lavoravano con me in primis, perché ancora non era arrivata il mondo della discografia. Il mio editore Paolo Corsi, direttore artistico di Emi Music Publishing, aveva intuito la bellezza del pezzo; l’idea era che andasse al cinema, come poi è ritornato al cinema adesso con il film “Paradiso in vendita” di Luca Barbareschi che la ospita. Il destino delle cose prima poi arriva. Gli editori volevano che “Petra lavica” andasse al cinema perché era un pezzo unico e questo mi ha portato a scrivere nel 1990, col mio nome e cognome, prima che diventassi Kaballà, “Brucia la terra” per “Il Padrino parte III” di Francis Ford Coppola».

Visto che ancora non eri Kaballà, come arrivano a te per il pezzo per il film di Coppola?
«Nel 1990 fui portato in Emi Publishing con “Petra lavica” che piacque moltissimo e mi fecero un contratto editoriale. Tanta visionarietà accomunò sia il direttore generale Antonio Marrapodi, sia il direttore artistico Corsi che mi dissero: “È molto bello questo brano, te lo blocchiamo per sei mesi ed editorialmente è nostro”. Siccome “Petra lavica” ha questa scrittura un po’ cinematografica e loro erano molto forti nel cinema, pensavano a registi come Tornatore, in quegli anni forte del successo di “Nuovo Cinema Paradiso”. Pensavano a film importanti di grandi autori sulla Sicilia e quindi mandarono, fra le altre cose, questo pezzo nella loro sede di Roma che era molto vicina a Cinecittà, dove in quel momento Coppola cercava idee per il “Il Padrino parte III”. Lo ha raccontato Coppola quando è stato ospite due anni fa del festival del cinema di Taormina, dove io sono andato a prendere un premio. Per il terzo “Padrino” il protagonista del film Michael Corleone, interpretato da Al Pacino, torna in Sicilia, dove era avvenuto il fatto gravissimo della uccisione della sua prima moglie Apollonia, e vuole legarsi al primo “Padrino”. Nino Rota, autore delle colonne sonore delle prime due parti, era morto nel 1979 e Coppola aveva in testa di inserire nelle musiche della parte terza, firmate dal padre Carmine Coppola, la ripresa del tema del “Padrino” di Rota agganciandosi con una canzone».

Che approccio hai scelto per arrivare a “Brucia la terra”, che è diventato un classico cantato anche da Andrea Bocelli?
«Io non sapevo nulla della sceneggiatura e quando mi hanno dato quella musica da film già fatta mi sono chiesto: adesso cosa faccio? Allora ho pensato – e qui c’è il folk, un po’ di reminiscenze della nostra storia musicale siciliana – di fare una serenata a modello di quelle ottocentesche. Ho tolto tutti gli orpelli della colonna sonora, ho scarnificato la chitarra e ho lavorato su due livelli. Perché lì non c’è solamente la donna, io ho sempre la Sicilia in mente. Ribalto la serenata, perché non c’è nessuna donna che si affaccia e la donna può essere identificata anche come la Sicilia, quella “Terra ca nun senti” cantata da Rosa Balistreri. Quindi in “Brucia la terra” c’è una dedica d’amore che può essere a una donna, o alla Sicilia perché in quel momento io avevo questa frattura sentimentale con la Sicilia. Io a 24 anni sono quasi fuggito dalla Sicilia per motivi di lavoro e quando sono andato via la Sicilia e Catania avevano tanti problemi, non erano quelle di oggi. Quando è arrivata “Petra Lavica”, già avevo avviato la collaborazione con Francesco Virlinzi (il manager discografico della Cyclope Records che ha prodotto la prima Carmen Consoli, i Flor e i primi percorsi solisti di Mario Venuti, Brando e altri nda) e di cose musicali ne avevamo fatte tante, c’è stata questa riconciliazione con la mia terra che ho voluto fare con le mie musiche. Quindi “Brucia la terra” è stato un importante antecedente».

Brano che tu poi non hai mai fatto tuo in un disco.
«No, lo faccio dal vivo ma non l’hai mai pubblicato. Prima o poi però lo voglio registrare».

Ma torniamo a “Petra lavica” che ancora attendeva sorti migliori.
«Sì, per un po’ quelle canzoni restarono appese e non le voleva nessuno e il progetto rischiava di finire prima di iniziare. Stefano Senardi, però, manager della Cgd/Warner, sentì i brani e volle pubblicarli. Io in quel momento ero in Irlanda, dove mi divertivo ad ascoltare Pogues, U2, Moving Hearts, quindi un po’ folk, un po’ rock. In testa avevo il rock irlandese non la Sicilia, Irlanda che si sente nel brano che apre l’album “In gloria”. Allora non c’erano i cellulari, quando un giorno chiamai da Belfast, Paolo Corsi mi disse di tornare subito perché mi avevano fatto un contratto discografico».

Quindi i brani già c’erano?
«C’erano tutti i provini, non c’era lo strumentale di “Petra lavica”. Alla fine ho pubblicato il provino di “Petra lavica” perché non sono più riuscito a cantarla così bene come nel provino, la forza di come è stata cantata la prima volta. Io volevo portare il brano verso sonorità alla Pink Floyd, ma il brano è quello che ha meno afferenze al rock. Io lo volevo fare con l’energia dello strumentale però la poesia non c’era. Allora c’è stata l’intuizione di inserire, alla fine, anche lo strumentale, che è pinkfloydiano nell’elettrico con quel bellissimo solo di chitarra elettrica di Fabrizio Consoli, un siciliano di seconda generazione. Poi abbiamo messo elementi di improvvisazione jazz sui fiati…».

 

Dopo la bella e fortunata presentazione di Catania, adesso l’appuntamento per la remastered edition di “Petra lavica” è per giovedì 28 novembre alla Cascina Sant’Alberto di Milano.
«Anche lì dialogheremo di musica pop e dialetto. Ci saranno certamente Stefano Senardi, e Alex Peroni che ai tempi, per Radio 105, la milanesissima 105, scelse come disco lancio non “Petra lavica” ma “Fino a dumani”. Lucio Fabbri, che è in tournée con Roberto Vecchioni, si collegherà telefonicamente».

Kaballà, foto di Luigi Saitta

Fino a che punto sei disposto a tenerlo nuovamente in braccio questo tuo primo figlio, che già ritenevi bello grande e pasciuto, e ora ti ritorna infante? Come te lo stai vivendo questo ritorno, più come un momento ludico o sentimentale?
«Ludico e sentimentale insieme, anche a Milano qualcuno mi ha tributato un po’ di stima che mi fa piacere a distanza di anni. L’altra sera a Catania – con Carmen, Mario, Luca, Ivan – ci sono stati momenti molto ludici. È un po’ quel che viene».

Che possibilità esiste di risentire dal vivo “Petra lavica”?
«La possibilità esiste, ci proverò».

Adesso c’è questa buona intesa con i Beddi e la Sicily Folk Orchestra, insieme avete ripubblicato con la Mhodì Music Company “Finu a dumani”, ad Acireale dal vivo avete rifatto “Petra lavica”. Nascerà una collaborazione più forte?
«Mi piacerebbe, dipende dai tempi, dai modi, da chi mi vuole. Adesso sono molto sereno, non inseguo più la fama e il successo come a 30 anni, ho solo voglia di fare cose belle».

A proposito di spettacoli dal vivo, riprenderai “Viaggio immaginario nella Sicilia della memoria”, condiviso con Antonio Vasta al pianoforte, omaggio alla Sicilia con canzoni, letteratura e cinema?
«Quello c’è sempre, per chi lo vuole io lo faccio».

Da tanti anni parliamo di un ipotetico tuo nuovo disco di inediti che mai arriva. Adesso abbiamo una stupenda ristampa dell’album d’esordio, ma perché questo disco nuovo non c’è ancora?
«Ti spiego. Io ho finito di fare disco miei alla fine degli anni 90 per tanti motivi, anche di natura familiare, poi nel 1999 esordisco a Sanremo come autore, con il brano “Non ti dimentico” di Antonella Ruggiero che arriva seconda fra i campioni. In quella fase mi sono voluto prendere una pausa, cominciando a fare l’autore, anche molto richiesto, e da lì sono nate tante cose. Negli anni la musica è cambiata e io che ero abituato a fare le cose in una certa maniera, distratto dai tanti impegni questa cosa qua un po’ me la sono palleggiata. Nel frattempo anche per me, che sono nato con una major mentre gli altri arrancavano un po’, le opportunità diventavano sempre meno. Scrivendo pop per gli altri, un po’ ho perso la Sicilia anche se l’ho avuta sempre vicina grazie alla collaborazione con Mario Venuti. Poi va detto che porto come me una responsabilità fortissima, che può essere letta come pavidità se vuoi, di avere innovato e ritengo di averlo fatto».

“Le vie dei canti”, secondo album di Kaballà

Innovazione che non si è fermata a “Petra lavica”…
«Molti hanno apprezzato ancora di più il mio secondo album, “Le vie dei canti” del 1993 (album che conteneva la splendida “Itaca” nda), che è ancora più pop ed a qualcuno è piaciuto di più perché non c’è niente di etnico, anche se la Sicilia nell’album c’è. Ho fatto un terzo album – “Lettere da fondo del mare” del 1996 – cantato in italiano, che io amo moltissimo ma che è passato un po’ in sordina. Ho fatto un disco dal vivo – “Astratti furori” del 1998 dove mi sono sperimentato con l’elettronica, un album che accoglie un inedito, “Todo modo” dove sul palco suona Cesare Basile che ancora di Sicilia non ne voleva sentire, ed ora fa album cantati in siciliano molto belli. Un disco che fu registrato e prodotto dal compianto Toni Carbone – fammelo salutare ovunque sia adesso -. Io ero uscito dalla discografia, il contratto con la Polydor era terminato, e Nuccio La Ferlita mi ha proposto di registrare un live, con Toni Carbone ai suoni e Roberto Terranova che metteva l’elettronica. Solo l’inedito “Astratti furori”, che diede il nome al disco, fu registrato in studio, un pezzo che è nato alla Battiato e che adesso faccio totalmente diverso. In “Todo Modo” ho chiamato sia Cesare Basile sia Giampiero Mazzone, ho messo insieme il diavolo e l’acqua santa, Cesare con la chitarra elettrica distorta e Giampiero con un tamburello folk. Quindi tornando all’oggi adesso non so, o faccio una cosa che in qualche maniera abbia una forza di novità, e la dovrei fare da indipendente perché non ho un’etichetta, o non faccio niente».

 

I brani per un nuovo album ci sarebbero?
«I brani ci sono, saranno dodici, tredici, e hanno tutto, anche il titolo, qualcuno è in siciliano, qualcuno lo faccio dal vivo. In questi brani non c’è il Pippo che saltava sul fronte del palco alla Bono Vox, sono stati scritti in un’altra maniera. Uno che si chiama “La ferita”, un altro si chiama “Notte di Palermo” che è stato ispirato da “Lunaria” di Vincenzo Consolo. Ce n’è un altro che si chiama “’Du ciumi”. Il punto è che forse dovrei osare in un altri mondi che non sono i miei, che ne so la classica o il jazz. A proposito di jazz sono contento che alla presentazione di Catania c’era Ivan Segreto, un musicista pazzesco che mi ha convinto subito nel 2004 con “Porta Vagnu”. Ivan non viene dal folk, è un jazzista, e quindi queste cose ibride in siciliano mi fanno impazzire».

La tua carriera di autore intanto prosegue e da poco è uscito “Universo”, brano scritto da te e Francesco Bianconi per Irene Grandi.
«Io continuo a scrivere anche se le opportunità sono sempre di meno. Irene mi aveva invitato per il concerto di Catania di lunedì 25 novembre ma per quella data ero già di ritorno a Milano in previsione della presentazione di giovedì 28 novembre».

Nel frattempo è arrivata la colonna sonora di “Paradiso in vendita” di Luca Barbareschi in uscita a marzo, che contiene 4 brani di “Petra lavica” e che vede la colonna sonora firmata a quattro mani da te e Antonio Vasta. Avete presentato il film alla Festa del Cinema di Roma.
«Ci tengo molto a questo film. “Sutta lu mare” e “Petra lavica” si sentono bene mentre “Quantu ci voli”, “Fin’a dumani” e “Paroli d’amuri”, tratto dal live “Astratti furori”, sono un po’ in sottofondo».

Il red carpet di “Paradiso in vendita” alla Festa del cinema di Roma

Che tipo di lavoro avete fatto con Antonio Vasta sulla colonna sonora?
«Se non ci fosse stato Antonio non sarei riuscito a fare un lavoro così bello. Dalla regia sono arrivati degli stimoli di mondi di cose che dovevamo riprendere e noi abbiamo seguito i vari input, l’ironia del momento, la drammaticità, il sentimentalismo. Vasta ha eseguito anche un Debussy straordinario. A me è sempre piaciuto questa idea della colonna sonora perché ogni tanto nella testa mi allarga la musica».

Coppola a parte, è la prima colonna sonora che firmi?
«No, ho fatto anche cose più piccole per il cinema. Ho scritto la colonna sonora di un docu-film bellissimo di Daniele Pignatelli, il regista del video di “Petra lavica”, che si chiama “Io spero paradiso”. Un docu-film girato nel carcere di Opera a Milano con detenuti ergastolani che si sono, come dire, “purificati” confezionando ostie per i migranti. C’è una scena girata a Lampedusa con un prete di frontiera che comunica con un ferro preso dai relitti delle barche e fa un ostensorio per comunicare ai migranti che arrivano sull’isola. Durante il Covid con Pignatelli abbiamo fatto un cortometraggio di 4 minuti, con contributi girati a casa, che è andato in tutto il mondo e si chiama “Nuovo cinema paravirus”. Io le faccio queste cose super indipendenti, forse di alcune non si parla ma io le faccio».

 

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