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L’Etna apocalittica di Roberto Zito: «Amore e odio con la propria terra all’ombra del Vulcano»

Libri e Fumetti Quando lo scrittore catanese annunciò sui social che sarebbe uscito il suo primo romanzo, si è scatenato un subbuglio simile alla storia, legata a un terribile terremoto/eruzione sull'Etna, che narra in "Chiodo della terra", edito da Scatole parlanti. Appassionato di cinema e di disater movies, Zito è un caso unico per fantasia, per stile, per bellezza e accuratezza nell' uso della parola scritta: «Sono rimasto il bambino che si creava i film in testa. E non voglio più nascondere quello che ero e sono»

Sua maestà l’Etna torna prepotente nei romanzi degli autori con un lunghissimo curriculum da scrittori (vedi Massimo Maugeri con il “Il sangue della montagna”). L’Etna che viene presa in prestito per video di generi nuovi nella musica, con personaggi che dopo la loro dipartita non vi è un giorno che non vengano ricordati (vedi l’album “Il vuoto” di Franco Battiato). Etna che è il nome di una delle maggiori vulcanologhe giapponesi: i genitori le diedero il nome quando visitarono il vulcano più alto d’Europa. E ancora l’Etna che è onore dei tifosi delle squadre sportive catanesi, ma anche simbolo adottato come incitamento alla violenza della parola che non è lo sberleffo tra sportivi, dove si invita a “lavarli tutti con la lava”, i catanesi.

Stavolta l’Etna è il palcoscenico apocalittico e cataclismico di “Chiodo della Terra”, il debutto letterario del 35enne catanese Roberto Zito, edito da Scatole Parlanti. Lo scorso 13 dicembre, in anteprima rispetto all’uscita ufficiale, Zito ha presentato il libro al centro di formazione artistica Viagrande Studios, di cui è studente del biennio della Scuola di Scrittura e Storytelling, affiancato da Giovanna Valenti e Manuela De Quarto, dedite rispettivamente a leggere degli estratti e a introdurlo e far da relatrice. Non solo nella sua città natale, ma lo Stivale intero lo ha atteso, quando diede l’annuncio che si era deciso a proporlo a case editrici. Annuncio scritto sui social. Un turbine di movimento e attese che quotidianamente impazzavano nella rete. Il motivo c’è, perché Roberto Zito ha partecipato in passato a prestigiosi premi e concorsi letterari di narrativa, sbancando da più parti, non si dimentichi il prestigiosissimo “Scrivere di cinema – Premio Alberto Farassino“, indetto dall’Associazione Cinemazero della Fondazione Pordenonelegge e dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. Con moglie, prole e un talento che sarebbe stato un peccato lasciare chiuso nel cassetto, una carriera accademica e scolastica di quelle che in molti ci provano e ci riescono, l’umiltà e l’educazione col quale Zito si pone al pubblico ormai sembra cosa rara. Un talento in embrione e chi lo mette sotto contratto?

Il gruppo editoriale Utterson di Viterbo, attraverso una delle tre case editrici che controlla, Scatole Parlanti, che già qualche scrittore concittadino di Zito lo ha pubblicato, alla fine dello scorso anno lo ha lanciato sul mercato. Il romanzo ruota intorno a sei personaggi che convergono nel momento in cui la più devastante eruzione dell’Etna cambia le loro vite. Vi aspettereste nel classico dei modi quanto un terrore ci coglie e ci cambia. Le cose non vanno così e per saperlo non potete che leggere il libro. In qualche modo, però, la storia di Roberto Zito ci è sembrata attinente al titolo del suo primo romanzo, ecco perché dopo i convenevoli la prima domanda che gli poniamo è se “Chiodo della terra“(pp. 265, € 17,00) può essere un titolo metafora. 

Roberto Zito con in mano una copia del suo romanzo

Roberto Zito con in mano una copia del suo romanzo

«Credo di sì – risponde l’autore – anche se il romanzo doveva avere un altro titolo. Durante la stesura, ho cercato qualche descrizione dell’Etna che riuscisse a colpirmi e mi sono imbattuto nei resoconti del geografo Jacques Élisée Reclus. Nel suo racconto di viaggio sull’Etna, Reclus ha definito il vulcano “chiodo della terra e pilastro del cielo”. Quando l’ho letta mi sono entusiasmato, quella frase si riagganciava perfettamente a una delle immagini più importanti del mio romanzo, quella della Via Crucis. Avrei voluto intitolarlo “Chiodo della terra e pilastro del cielo”, ma temevo che a molti avrebbe ricordato “I pilastri della terra” di Ken Follett e alla fine ho optato per “Chiodo della terra”. E devo dire che molti sono rimasti subito colpiti dal titolo e dal fatto che sembra anticipare i temi centrali del romanzo: la violenza, il martirio, il sacrificio, il rapporto di amore e odio con la propria terra».

L'infinito farmacopee presso il Viagrande Studios nell'anteprima del 13 dicembre 2022 prima che il libro uscisse ufficialmente

L’infinito farmacopie al Viagrande Studios lo scorso 13 dicembre, foto di Salvo Tropea

Un debutto alla narrativa con tante aspettative, specie da parte di un pubblico su scala nazionale che magari conosce soltanto attraverso i social network: quando ha deciso di proporsi all’editoria?
«Ci ho messo un po’ a decidermi, ero molto titubante ma alla fine ho preso la decisione giusta, al contrario del mio tentativo precedente di pubblicare un romanzo, purtroppo rivelatosi un fallimento per colpa della mia paura a espormi. C’è da dire che quel manoscritto, che non ho mai pubblicato, era molto più intimo, si trattava di un romanzo di formazione, e temevo che qualcuno cercasse di trovare aspetti della mia vita dentro quella storia. Una paura forse infondata ma al giorno d’oggi troppe persone tendono a confondere lo storytelling con la realtà, e tanti ci hanno fatto una fortuna sul mischiare la finzione con la propria vita e darla in pasto al pubblico. Io non volevo correre questo rischio, per cui quel manoscritto è rimasto nel cassetto e sembrava che il mio sogno di condividere un romanzo non si sarebbe mai avverato. Poi è successo che ho scritto in poco tempo “Chiodo della terra” ed ero più sicuro di tutto: della storia, dei personaggi, delle mie capacità (complice il fatto che sto frequentando una scuola di scrittura e storytelling a Viagrande Studios). Ed ero certo di una cosa: nessuno avrebbe trovato aspetti del romanzo riferiti alla mia vita. È un romanzo corale, sono tanti personaggi, tutti diversi tra loro e molto lontani da me, per quanto siano frutto della mia fantasia. Devo dire, però, che lo sprone finale me l’ha dato proprio una mia collega del corso di scrittura, nonché una grande amica, che mi ha mandato un semplice messaggio: “Basta nascondersi”. E così, ho firmato con la casa editrice Scatole Parlanti».

A cosa si è ispirato per scrivere “Chiodo della terra”?
«Inizialmente mi sono ispirato a un genere cinematografico ben preciso, il disaster movie, un filone con cui sono cresciuto negli anni ’90. Mio padre è un grande appassionato di film catastrofici e mi ha trasmesso questa passione, ho cominciato a studiarli e capire come sono strutturati: si tratta di film corali con personaggi di classi sociali diverse, tutti accomunati da rimorsi e rimpianti, che si riscoprono eroi e spesso si sacrificano per affrontare cataclismi di proporzioni bibliche. Ovviamente è un genere molto hollywoodiano e retorico, e se fossi rimasto fedele ai cliché del genere il romanzo sarebbe diventato una vera schifezza. Per cui ho cominciato a leggere molti romanzi che parlano di rapporti complicati tra genitori e figli, uno dei miei preferiti è “Pastorale americana” di Philip Roth, oltre a romanzi apocalittici che mi hanno segnato come “La strada” di Cormac McCarthy e “La peste” di Albert Camus. Infine, una fonte di ispirazione fondamentale è stata la visione di “Magnolia” di Paul Thomas Anderson, film corale dove tutti i personaggi sono tormentati dai propri rimpianti, e alla fine vengono sconvolti da un cataclisma inspiegabile. Quando l’ho rivisto in una serata all’Arena Argentina, sono tornato a casa ancora più ispirato di prima e ho finito di scrivere il romanzo in poche settimane».

Un dettaglio ritraente Giovanna Valenti mentre legge un estratto del libro di Roberto Zito

Giovanna Valenti mentre legge un estratto del libro di Roberto Zito, foto Salvo Tropea

Lei narra diverse storie di diversi personaggi i quali con voli pindarici, molto curati, riescono a far interagire tra le macerie del grande disordine rappresentato inizialmente da una eruzione/terremoto alle pendici dell’Etna: qual è il segreto e cosa l’ha indotta a rendere onore a questa evoluzione di intersezioni degna di grandi penne della narrativa?
«Come dicevo prima, il segreto è non assorbire passivamente tutto quello che si legge o si vede ma studiarlo, analizzarlo e sezionarlo per capire la struttura alla base della narrazione. Spesso si pensa che il cinema e la narrativa siano dei semplici passatempi, non si ha contezza di quanto studio e preparazione ci siano dietro. È puro artigianato, bisogna prendere elementi diversi e assemblarli con cura, cercando di far funzionare un meccanismo che è sì pura astrazione mentale ma è anche qualcosa di tangibile. Perché se una storia non funziona, non è coerente, i personaggi non sono costruiti a tutto tondo e non si incastrano bene tra loro, lo vedi subito. E tutto il romanzo crolla in un attimo. Per questo ho passato molto tempo a preparare la storia e il background dei singoli personaggi, mentre mi formavo al corso di scrittura, assimilando concetti che in tanti anni alla Facoltà di Lettere non ero riuscito a comprendere».

Il primo piano di Roberto Zito ad opera del m.stro fotografo Salvo Tropea

Il primo piano di Roberto Zito ad opera del m.stro fotografo Salvo Tropea

C’è del pessimismo, azzardiamo a definirlo “piacevole”, che non muore né muove in nichilismo: i valori sono importantissimi e potenti nel suo romanzo, seppur alcuni potrebbero, nelle fazioni estreme, non essere condivisi: da dove nasce l’idea?
«Dal mio idealismo. Ho degli ideali su cui non transigo, posso cercare di essere disponibile al dialogo, flessibile nel rivedere le mie posizioni, ma su certe cose non scendo a patti con nessuno. Piuttosto chiudo i ponti, se non c’è alcuna possibilità di compromesso. E fatico a trovare un compromesso con chi diffonde odio e pregiudizi verso chiunque voglia semplicemente vivere in modo libero».

Ha vissuto personalmente o da spettatore dei momenti simili ad almeno uno dei tanti narrati che poi con la fiction ha riportato?
«Non proprio, ma la scena finale del romanzo è presa da un mio ricordo di quando ero adolescente. Non vorrei rovinare la lettura a nessuno, ma la situazione che si vede nel finale, durante la Via Crucis, mi è successa davvero, seppur in un contesto totalmente diverso. Mi è sembrata una bella immagine da utilizzare nel romanzo, anche se è trattata in un tono molto più cupo e angosciante».

Zito, Valenti e De Quarto (Foto Salvo Tropea)

Zito, De Quarto e Valenti al reading ai Viagrande Studios, foto Salvo Tropea

Lo stile è molto aculeo, ricercato nonostante la semplicità della terminologia utilizzata: è la sua strada narrativa o è una sua scelta perché il romanzo deve essere un vero atto di godimento?
«Non saprei ancora quale sia la mia strada narrativa, credo che lo stile utilizzato per questo romanzo non lo replicherò per altri lavori. In primo luogo, perché sono quasi impazzito a gestire tutti questi personaggi con tanti punti di vista differenti e nel mezzo di una catastrofe. In secondo luogo, perché il romanzo che sto scrivendo adesso è di genere comico e ha un tema completamente diverso, oltre a essere narrato in prima persona. Intanto, vediamo dove mi conduce questa strada…».

Una prospettiva emozionante e inquietante al contempo

L’Etna su carta e l’Etna dal vivo, un confronto emozionante

L’emozione che prova Luca, nello spingersi verso un ritorno a casa per cercare la madre, sembra quasi che lo preoccupa più per l’orco/marito, dunque il padre di Luca, che per il tormentoso disastro che vive la donna: quanto le è costato scegliere e far prevalere di più una delle due sopraffazioni subite da Agata?
«In termini emotivi, troppo. Ogni volta che scrivevo di Agata e di Luca, pensavo al loro passato e al loro rapporto di complicità e affetto, stavo malissimo. In un punto poi, non mi sono ripreso per giorni. Anche perché il loro percorso doveva essere diverso, ma poi la loro storia si è evoluta in modi inaspettati. Da un lato sono contento, perché la loro linea narrativa è quella che mi rende più fiero del lavoro svolto, ma dall’altro… meglio che non dico altro, altrimenti rovino la lettura a tutti».

Primo piano per la relatrice Manuela De Quarto

Primo piano per la relatrice Manuela de Quarto, foto di Salvo Tropea

Seppur è il suo debutto, lei vanta notevoli premi per partecipazioni o liberi encomi ricevuti per scritti liberi: da quanto tempo scrive e perché lo fa?
«Diciamo che ho sempre avuto la tendenza a farmi, come simpaticamente diciamo noi catanesi “i film in testa”, però davvero me li creavo nella mente e me li rivedevo di continuo, a volte mormorando pure la colonna sonora e i dialoghi dei personaggi. Questo perché il mio primo amore è per il cinema, e ancora oggi lo è. La lettura, e di conseguenza la scrittura, sono venute dopo, perché mettere per iscritto qualcosa che è frutto della tua mente è un esercizio faticosissimo, e per giunta bisogna farsi una corazza di ferro per accettare anche le critiche e i giudizi altrui. Mi sono messo a scrivere brevi storie più o meno nella tarda adolescenza, anche se le tenevo per me e al massimo le condividevo con qualche amico. E meno male, perché erano storie abbastanza acerbe, tutte ispirate a romanzi e racconti distopici di cui ero un patito. Nel frattempo, continuavo a scrivere recensioni e a diffonderle, adoravo analizzare i film che vedevo e magari consigliare piccole perle, specialmente del cinema più indipendente. Negli anni dell’Università ho cominciato a scrivere qualche racconto e a partecipare ad alcuni concorsi, a volte andava bene e lo prendevo come un segno, a volte andava male e mi buttavo giù. Non credevo di avere le capacità di scrivere un racconto significativo, figuriamoci un romanzo! E infatti, quando ho scritto il mio primo romanzo, è rimasto nel cassetto e ancora sta lì. L’essere riuscito a pubblicare “Chiodo della terra” mi ha ricordato invece perché lo faccio, e perché sono tornato a scrivere dopo anni in cui nemmeno aprivo Word: perché sono rimasto sempre quel bambino che si creava i film in testa. E non voglio più nascondere quello che ero e sono».



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