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Figghia fimmina… nottata persa

Blog Rosa si alzò presto perché quel giorno si sarebbe sposata sua figlia Giusy che aveva compiuto già 37 anni e facile era il bilancio delle mancate occasioni matrimoniali. Cosa aveva Giusy che non andava? Forse le caviglie materiali o quell’accenno di peluria su labbra e mento. Finché la madrina interpello La Sala, sensale ad ampio spettro, che prospettò Pasquale, monco di due dita, o Librio, divorziato da moglie sgualdrina. Ma ciò che contava veramente era la dote...

Il sonno inquieto era sparito del tutto e Rosa, madre della sposa, tormentata anche dai grossi bigodini fermati con forcine che le mettevano in piega anche le circonvoluzioni del cervello, si alzò. Alle cinque di mattina si disponeva così, distrutta nel corpo e nello spirito, ad affrontare la festa. Quel giorno infatti si sarebbe sposata sua figlia Giusy e lei, la mamma della sposa, sarebbe stata la co-protagonista dell’evento a cui  da mesi sacrificava i consueti ed abbondanti pasti. Avrebbe voluto essere perfetta ed invece, specchiandosi, vedeva una donna quasi anziana con gli occhi pesti, la faccia gonfia ed i capelli elettrizzati per il continuo girarsi e rigirarsi in un letto di spine.

Guardò con disprezzo suo marito che russava rumorosamente e si chiese come mai avesse tanto brigato per fare sì che anche sua figlia si sposasse, legandosi a vita con un estraneo.  Chiusa la porta, non tanto per rispetto nei confronti del coniuge quanto per dilazionarne il risveglio e godere da sola la personale e silenziosa alba di quel giorno, con indosso la vestaglia buona, quella messa da parte per eventuali ricoveri ospedalieri, fece il giro della casa soffermandosi sul tavolo dei regali in esposizione. Stigma di rituali tribali che legano tra loro i membri di una società che risponde e ricambia per un obbligo reciproco, il regalo implica infinite sfumature circa il suo significato che in ogni caso marca la valutazione della considerazione goduta di chi offre e  di chi riceve. Ecco perché Rosa decise che nei giorni seguenti con penna e carta alla mano avrebbe redatto con calma un rendiconto dettagliato tra valore del regalo, costo  del pranzo e relativo grado di parentela o amicizia.

Inspirò profondamente rimandando a dopo i sentimenti  di astio o altro che ne sarebbero scaturiti.  Non aveva bisogno di postergazione invece la sua riflessione sulla parure di brillanti, regalo alla figlia da parte della famiglia dello sposo. Quando si presentarono con quel regalo le bastò notare l’involucro del gioielliere per riconoscere da quale televendita  provenivano e volentieri avrebbe mandato tutto all’aria ma l’età e il buon senso la trattennero.

Basta! Quello era un giorno da godere e nulla doveva turbare l’atmosfera sperata voluta ed organizzata con tutti gli strumenti possibili. Seduta in cucina rifletteva come fosse stato difficile giungere a queste nozze. La figlia Giuseppina,  infatti, aveva compiuto già 37 anni e facile era il bilancio delle  mancate occasioni matrimoniali; la ragazza di ciò ne soffriva anche perché i solleciti parenti non evitavano mai di sottolineare il suo essere ancora nubile ed i matrimoni delle altre. Cosa aveva Giusy che non andava bene? Forse era troppo educata e timida. Rosa si faceva una colpa di averla cresciuta così riservata, timida e non zoccola come volevano i tempi. A volte la guardava con occhio distaccato, non  da madre, per intuire quale attrattive ella possedesse per conquistare un bravo giovane; forse era per colpa delle caviglie un po’ troppo materiali o per quell’accenno di peluria che le sottolineavano labbra e mento.

Rosa allora, vincendo i suoi sentimenti e sotterrando profondamente l’orgoglio aprì il suo cuore di madre alla madrina della figlia. Femmina scaltra ed esperta nei cosiddetti maneggi matrimoniali, ella conosceva un certo La Sala, noto nel quartiere per essere sensale ad ampio spettro. Rosa nel loro primo incontro aveva portato la fotografia della figlia e timidamente aveva avanzato la richiesta per lei di un ragazzo che oltre ad essere una brava persona, giovane ed attraente, fosse anche  sufficientemente piazzato economicamente, possibilmente con posto fisso.  La Sala le rispose brusco che si doveva accontentare di quello che egli avrebbe prospettato; piuttosto, le dicesse lei  in che cosa consisteva la dote di Giusy.

Rosa impallidì perché non aveva minimamente pensato a quell’aspetto ritenendo che oltre le grazie femminili della figlia sarebbe bastato il corredo che, naturalmente, era pronto  sin dall’adolescenza.  Il sensale fu molto cafone nell’esplicitare la sua meraviglia e quasi le sghignazzò in faccia  facendola arrossire.  La Sala cominciò ad agitarsi sulla sedia dando scortesi segni di impazienza ed allora Rosa cominciò a balbettare elencando flebilmente: otto paia di lenzuola di cotone, quattro di lino più o meno ricamate, con splendidi  intagli nonché le tovaglie da tavola da sei e da dodici. Aveva anche  coperte di diverso tipo:  quella di ciniglia, quella di pura lana,  e una  in tombolo ed una di Cantù…

La commare, comprendendo come l’affare volgesse al peggio, prese in mano la situazione assicurando che la nipote avrebbe avuto alla morte dei genitori  la casa di famiglia e che subito, all’atto del matrimonio poteva usufruire della pigione di un piccolo immobile commerciale dato in regolare affitto; questo si sommava chiaramente all’acquisto della camera da letto, e la partecipazione al cinquanta per cento delle spese nuziali. Rosa temette di svenire:  avrebbe voluto fuggire per la sfrontatezza della commare; “era pazza” pensava, come aveva potuto farsi avanti senza consultarla, soprattutto sull’affitto che dava un certo agio mensile alla famiglia e  poi la camera da letto e la spesa per il matrimonio; chi glielo avrebbe detto a suo marito! Sentì che la pressione sanguigna premeva maligna sulle sue  tempie e si tranquillizzò solo per la certezza che di lì a poco sarebbe morta per ictus. Ma la sorte è malevole e la natura bastarda, così Rosa non morì; stette solo male, anzi malissimo anche perché dovette comunicare al marito la contrattualistica proposta dalla donna al sensale. Infatti di lì a poco,  si sentì come un vascello alla deriva  spinto in ogni direzione ed  alla fine viene scaraventato sui taglienti ed insidiosi scogli costieri.

Senza accennare neanche alla più debole difesa di  quelle ire coniugali dagli  irripetibili contenuti, Rosa subì la meritata “violenza” coniugale. Il marito, infatti, dopo la prima incontenibile esplosione di collera cominciò a ripetere: «Sono un cornuto, sono un cornuto»  e correva per la casa  inseguito ed inseguendo la sua stessa disperazione. «Cornuto io e chi non me lo dice» e nel correre si teneva le mani in testa tra i due  crespi cespugli di capelli  che l’alopecia separava al centro: «Sti ru buttane ci rettero u magazzino ru papà».

Rosa seduta sul letto piangeva fragorosamente lasciando che ondate di singhiozzi la scuotessero da capo a piedi. Voleva morire! ma perché non le era nato un figlio maschio che avrebbe rappresentato l’orgoglio della famiglia che avrebbe dato loro solo soddisfazioni  e non tutti questi guai che ora la trafiggevano il cuore . Il cervello di Rosa fu folgorato allora da una frase sentita e risentita per anni di cui  solo ora comprendeva il significato profondo: “figghia fimmina nottata persa”. Nottata persa allora, e nottate perse in tutti questi ultimi periodi. Che ci poteva fare se era nato questo madduccone che non era neanche capace di suscitare  un micron di libidine nei masculi. Allora la commare intervenne, intanto per zittire il clamore casalingo sicuramente monitorato dal vicinato e poi per spiegare come in fondo l’operazione matrimonio sicuro alla fine convenisse a tutti. Infatti con calma prospettò all’iracondo quale sarebbe stato il destino di quell’immobile se sua figlia, figlia unica, fosse rimasta schietta; sarebbe sicuramente finito ad uno dei suoi nipoti che tanto lo snobbavano.

Questo argomento sembrò fare breccia nell’ottundimento del rabbioso: era vero! Altro che la cosa rimaneva ad un eventuale  nipote di sangue diretto, altro che sicuramente andava a quei bastardi dei  suoi nipoti. «E poi – proseguì la commare – volete mettere! Passare per munifico davanti a tutti, in fondo avete una figlia sola, e poi zio Cosimo, diciamolo chiaramente, Giusy solo così si può maritare, non perché non è una brava ragazza, perché onestamente lo è,    però!… però!… però!…».

Dopo qualche mese così  il sensale, tramite la commare, chiese un incontro per prospettare ai genitori quello  che di meglio aveva trovato per la loro figlia. Le persone individuate erano due: a) Pasquale, impiegato presso la falegnameria di uno zio, azienda solida che annoverava trenta dipendenti tra operai, amministrativi  ecc…; età 38 anni, tre sorelle, due sposate, madre vedova da lunga data, famiglia devota a san Giovanni Battista, il decollato; b) Liborio, ragioniere contabile impiegato presso un ufficio di gestione di condomini; presenza distinta, lavoro pulito, anni 40, separato dopo un anno di matrimonio con una moglie rivelatasi un po’ sgualdrina. Punto fragile del primo: assenza del medio e dell’indice della mano destra, causa sega elettrica. Punto fragile del secondo: presenza di un figlio di otto anni, in affido condiviso.

«E meno male che questi sono i meglio!!!» commentò la signora Rosa. Dopo, poiché non voleva prendere più nessuna iniziativa da sola, riferì al marito tutta la vicenda. L’iracondo al solito diede la stura ai suoi pochi ma chiari concetti che come il bombardiere Enola gay sganciò sulle due donne già distrutte di loro fino agli atomi più reconditi  della loro struttura anatomica, una valanga di improperi che sostanzialmente ripetevano lo stesso concetto: «Un monco o un cornuto! Un monco o un cornuto… a postissimo siamo!!!!». Dopo stracco ed in un bagno di sudore, rovinando su una sedia bisbigliò: «Ma pi fozza chista s’ava maritare???!!!!».

Rosa allora pianse, pianse pure la commare e, si sa, nessuno resiste alle lacrime di una, anzi di due donne, così si decise per Pasquale, il monco. Tale decisione fu presa per una serie discreta di motivazioni: intanto non aveva senso prendersi uno che già aveva prole perché se la figlia, oltre ad essere femmina, era pure sterile, l’immobile poteva finire  ad un estraneo; poi, era sempre avere in casa un artigiano che anche senza due dita avrebbe avuto senz’altro più competenze di uno che era solo vestito pulito. Giusy in tutto questo, lasciava fare per non pregiudicare il suo futuro che finalmente diventava coinvolgente. In realtà era stata lei stessa l’artefice primaria della vicenda; infatti la giovine, poiché si era resa conto che con le sue sole forze non avrebbe mai trovato marito,  già da tempo aveva cominciato a tormentare la madrina al fine di indurre la madre alla decisione di ricorrere ad  un matrimonio consato. La madrina, vuoi per sincero affetto nei confronti della ragazza vuoi per una naturale inclinazione all’intrigo, non perse tempo e voglia a montare tutto il teatrino.

Fu scelto così Pasquale che fu invitato a salire per il giorno di San Giuseppe, protettore dei falegnami ed artigiano del legno lui stesso, che avrebbe con responsabilità dovuto vegliare su quell’unione. Pasquale si presentò così com’era, uomo semplice e riservato, parlava del suo lavoro dimostrando in ogni parola, in ogni concetto di amarlo sopra ogni cosa e Giusy, per compiacerlo imparò subito la differenza tra una sgorbia da cornice ed una da telaio; Pasquale amava anche la madre e le sorelle ma Giusy in questo lo seguì un po’ meno. Pare, comunque, che i ragazzi si piacessero e che fossero volenterosi e ben disposti come si conviene in un matrimonio portato. Si operò così quello scambio ordinario in cui  una donna veniva barattata come moglie con tutti gli obblighi legati a questo; ed un uomo veniva barattato come innesto per una famiglia a cui avrebbe riservato cura ed assistenza. Era stata un’antropologica operazione commerciale e proprio perché scevra da qualunque impulsiva e naturale carica emotiva, come assicurò il signor La Sala (l’unico a vedere moneta corrente) era destinata a durare nel tempo perché basata appunto sul reciproco fabbisogno. E’ fu vero cosi!

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