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I “piccoli mostri da guinzaglio” di Bagheria, ventata di follia del Settecento siciliano

Blog A varcare il cancello di Villa Palagonia inviterei, con in mano il testo di Natale Tedesco che vi abitò, quanti ancora ritengono il secolo dei Lumi (che fu anche di Voltaire e di Cagliostro), e soprattutto il Settecento siciliano (che fu anche di Domenico Tempio e dell'abate Vella), un pignolo tribunale presieduto dalla Ragione, e ne ignorano gli eccessi, gli azzardi, i sortilegi, la ventata di follia che muta in smorfia quel cipiglio e che scompiglia le limpide geometrie di quella superficie di astratta razionalità

Quando, or è quasi una vita, varcai per la prima volta i cancelli della villa Palagonia a Bagheria, non fu per incontrarne i mostri di pietra arrampicati sulla cinta muraria, scandalo o vertigine per tre secoli di visitatori, ma per incontrarvi piuttosto il colto e generoso inquilino, ideale erede dei Gattopardi che l’avevano ideata o frequentata. Dico di Natale Tedesco, italianista principe dell’ateneo palermitano, quarantennale amico e maestro. Il quale, di quella dimora avita, come il Praz della Casa della vita, scrisse anni fa in un elegante volumetto: Villa Palagonia tra norma ed eccezione, editore Arnaldo Lombardi, anche lui come Tedesco non più fra noi.

A varcare con me quel cancello inviterei, ma con il Baedeker di Tedesco in mano, quanti ancora ritengono il secolo dei Lumi, e soprattutto il Settecento siciliano, un pignolo tribunale presieduto dalla Ragione, e ne ignorano gli eccessi, gli azzardi, i sortilegi, la ventata di follia che muta in smorfia quel cipiglio e che scompiglia le limpide geometrie di quella superficie di astratta razionalità. Penso alla Musa magmatica e truculenta del nostro Domenico Tempio, penso alla truffa dell’abate Vella che tenne in scacco l’intero patriziato isolano e ispirò a Sciascia il suo romanzo forse più felice, penso a quei mostri bagheresi, ibridi o zombi da far inorridire l’olimpico Goethe, e che Tedesco felicemente atteggiava nel suo libro a pietrificati attori d’un beffardo e malinconico teatro.

Villa Palagonia a Bagheria

In quella torva galleria il bizzarro patrizio-negromante Ferdinando Francesco Gravina principe di Palagonia non solo, dunque, esponeva gli exempla dei vizi dei suoi contemporanei e magari consanguinei (le “scimmie” del Gattopardo!), ma si esponeva a sua volta proiettando in quel grottesco bestiario i fantasmi d’una personale, atrabiliare ipocondria: per recingerne, scriveva Tedesco, «la propria malinconica solitudine, per coltivarvi tra burla e tragedia una misantropia contraddittoria».

E contraddittorio, come il ruvido spleen di quel principe burlone e feroce, fu il secolo di Voltaire e di Cagliostro, dell’Encyclopédie e delle 120 giornate di Sodoma, così come eterogenei tra sopravvivenze e innovazioni, tra “norma” ed “eccezione”, furono i suoi stili, dai turgori e dalle iperboli del barocco alle cesellature del rococò e alle limpide armonie neoclassiche, tutte compresenti e intrecciate in quella dimora. Perciò, a quell’ideale passeggiata tra i giardini e i saloni di villa Palagonia, occorrerebbe convocare pure certi storici della letteratura e dell’arte che quella storia segmentano, come fosse un verme tenia, in particelle smembrate e in ordinata successione: Arcadia, illuminismo, neo-classicismo, pre-romanticismo e così via etichettando e banalmente semplificando.

La prima pagina dell’Encyclopedie

E mentre nel salone degli specchi quegli uomini dabbene, dalle idee “chiare e distinte”, verranno irretiti dagli incanti e inganni di quel barocco esistenziale, frutto del vivir desviviendose che è per Sciascia la condizione isolana, oppure con lo sgomento d’un Goethe redivivo sgraneranno gli occhi dinanzi ai mostri del giardino («piccoli mostri da guinzaglio, da passeggio», ironizzava Sciascia, come a difenderne il suo goethiano, ma solo apparente, razionalismo), io potrei pure defilarmi per tornare a riposare, come tante e tante volte ho fatto grazie agli ospitali Natale e Mimì, nell’alcovina che s’apre, in discreta e vereconda penombra, di là dal salone affrescato di pagode e satrapi d’un favoloso Oriente.

Et in Arcadia ego: come i pastorelli d’antan meditabondi al cospetto d’un teschio, simbolo di disfacimento di quell’idillio bello e mendace, nella quiete notturna di villa Palagonia allora forse mi appariranno le larve spettrali di questo nostro tempo di pestilenze e terrori, di Covid e nuovi mostri, che è anch’esso figlio del nostro “disvivere”, del nostro non saper vivere se non facendoci e facendo del male, riducendo «questa bella d’erbe famiglia e d’animali» a cimitero di cavie, pietrificata ossessione, truculenta galleria di «piccoli mostri da guinzaglio».

“Et in Arcadia ego” di Giovanni Francesco Barbieri

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    VIVERE E DISVIVERE

    se vivere è (scriverne in) amicizia, è altrettanto vero che il suo rifiuto è disvivere, o siamo sterilmente nel campo delle sillogi (deduzioni) piuttosto che delle corrispondenze del cuore (conduzioni)?
    Chi viveva a villa Palagonia (divisa in settantesimi la villa diventa una sorta di sgabuzzino?) può descrivere (disvelare), divagando e ricordando, lo spirito di un secolo (ma la passeggiata è “ideale”)? E padre Lo Bue, aristocratico suo abitatore dalla nascita e non inquilino, cosa dovrebbe aggiungere in merito?
    Chi decide cosa è norma e cosa è eccezione? Non è spostare, dicendo che l’una e l’altra sono (erano) compresenti, il problema di cosa di volta in volta è dominante, di più e cosa meno? Della serie: prima il freddo razionalismo decide cosa è una e cosa è l’altra, poi il rifiuto dello stesso prende per stupido o limitato chi è cascato nell’insegnamento ‘ufficiale’, prima, ad esempio,ci dice (sussurra) che l’Apocalisse è un testo fondamentalista che andrebbe espunto dal Nuovo Testamento, poi pascalianamente (palagonicamente) riconosciamo che le Scritture/Costituzioni/teorie/architetture sono piene di (incorreggibili, necessarie alla Rivelazione) oscurità ed ambiguità, perché “i segni sensibili di Dio dello Stato o dell’Autorità, pur essendo di diritto accessibili a tutti, non acquistano di fatto significato e valore se non per gli animi già predisposti a intendere il linguaggio.”
    <>: così Rino Consolo commenta il post di Antonio Oblomov Di Grado, prendendosi il like di quest’ultimo. Ma se (dire) impostura e (dire la) verità sono due opposti, come si fa a dire
    lo stesso aggettivo (potenziale) di entrambi? Non dovrebbe, comunque il signor Consolo intenda la scrittura, dire ‘attuale impostura” e “potenziale disvelamento”, e viceversa? Potenza non si è sempre contrapposta ad atto o è questo il ‘nuovo’ modo (adatto, conveniente) di contrapporre/giustapporre? Non era meglio credere ingenuamente (solo o prevalentemente. In “maggioranza relativa”) alla norma per i tanti, per i più, rispetto alla ‘dialettica’/doppiezza degli opposti come scusa dei dominanti che-dicono-che-la-dominazione-non-esiste per sfuggire alle identificazioni/definizioni? Cosa fa di più la scrittura, cosa è norma e cosa eccezione (cosa incanto e cosa inganno)? Bello rispondere sempre “dipende”, o “tutte e due le cose”: l’ambiguità riaffermata (trionfante) o il rifugio del viscidume (diversamente dall’equanimità/oggettività dichiarata).
    Ma, si sa, noi fummo (non siamo già) i gattopardi….

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