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Unici e irripetibili come la vita

Blog Mi interrogo su ciò che c’è di unico e irripetibile in ciascuna esistenza. E non mi rassegno all’idea che tutto questo sia destinato a scomparire nel nulla. Vorrei che tutto di tutti, ardori e furori, tenebre e splendori, ricordi e speranze, si serbasse intatto, perché non avrebbe avuto senso, altrimenti, aver vissuto. E forse è questa la resurrezione dei corpi promessaci dal Cristo. Sono i dolori, le speranze, le preghiere il fondamento della vera chiesa

Questi sono i “plausi” n. 100, perciò paulo maiora canamus. Una noiosa omelia? Spero di no: anzi prendo il via da un’umile creaturina, la mia tartaruga (è maschio, si chiama Ugo).

Già, perché dopo aver dato un’occhiata (frettolosa e avara, come meritano) ai giornali e alle notizie del giorno, poso lo sguardo sul tartar-Ugo, intento a mordere con avida gioia un frammento di verdura. E con altrettanta gioia sento di stare con lui, col suo istinto vitale, con la sua pigra e innocente animalità, anziché con Scalfari o con Renzi, con l’Europa delle banche o con l’università dei crediti. E gli sono grato d’insegnarmi quanto e perché la vita sia degna d’essere vissuta, nella sua elementare nudità, in quella foglia di lattuga divorata in pace sotto il sole primaverile.

Poi esco per la spesa; e in auto, circondato da centinaia di esistenze inscatolate nelle loro vetture, mi interrogo su ciò che c’è di unico e irripetibile in ciascuna, nel piccolo tesoro di affetti e desideri, di gioie e dolori, di convinzioni e tormenti che ognuna racchiude e che è solo suo. E non mi rassegno all’idea che tutto questo sia destinato a perdersi, a scomparire nel nulla; e nemmeno all’idea che la nostra individualità, e quella delle innumerevoli vite che ci hanno preceduto, per quanto minime e insignificanti nel tempo e nello spazio smisurati dell’universo, debbano azzerarsi e omologarsi quali soffi del respiro cosmico, o puri spiriti, disincarnati e immemori, contemplanti la Divinità. E vorrei invece che tutto di tutti, ardori e furori, tenebre e splendori, ricordi e speranze, si serbasse intatto, perché non avrebbe avuto senso, altrimenti, aver vissuto. E forse è questa la resurrezione dei corpi promessaci dal Cristo. Lo spero, almeno, e voglio crederci.

“Individuality” dipinto di Leon Zernitsky

«Tutto quello che è vivo è santo» diceva l’ex predicatore Casy in Furore di Steinbeck, quando lo chiamarono a pregare per l’anima del nonno dei Joad: perché è la vita che va celebrata, è per i vivi che bisogna pregare; chi ha smesso di vivere ormai ha la strada spianata. E infatti, mi chiedo, perché si muore? Forse perché l’anima cresce e il corpo non le basta più, non può più contenerla. Crescere, accumulare gli anni non significa affatto deperire, ma espandersi, dilatarsi, sporgersi e fluire oltre. «Come un filo d’erba / che si inchina alla brezza di maggio / o alle sue intemperie» cantava Franco Battiato, che adesso dimora nei Suoi regni di quiete.

Tutto questo ha a che fare con questa o quella chiesa? Non credo; si dice che fu la chiesa milanese di san Rocco a far precipitare la conversione di Manzoni, ma chissà cos’abbia avvertito, e quali pulsioni interiori in quei momenti abbiano fatto irruzione nella sua mente provata. Giorni fa ero a Roma; e ogni volta che vado, trascorro qualche tempo nella chiesa che mi è più cara, anche se non mi professo cattolico: l’austera basilica paleocristiana di san Vitale. E ogni volta è come se avvertissi fisicamente la vibrazione del cuore della chiesa universale, che non è cattolica né protestante né ortodossa, che non è di Pietro o di Paolo o di Giacomo, che non è (e lo dico con tutto il rispetto per queste grandi figure) di Giovanni Calvino o di Ignazio di Loyola, di Pascal o di Teresa d’Avila, ma è dell’infinita sequela di anime, di vite anonime, che hanno affidato dolori e speranze a un Nazareno morto in croce che si diceva figlio di Dio.

Sono quei dolori, sono quelle speranze, sono quelle preghiere, non colonne e volte, non altari e affreschi, non dogmi e sacramenti, non chierici e teologi, il fondamento della vera chiesa di Cristo; e li sento avvolgermi mentre ascolto una messa feriale rapida e distratta, mentre accolgo nelle mani un’ostia in cui devo credere che viva il Suo corpo: devo crederlo perché l’hanno creduto lungo due millenni quei poveri di spirito (“mendicanti dello spirito”) che Lui amava e che L’hanno amato incondizionatamente; devo crederlo perché solo ciò che risulta impossibile a questo mondo, alle sue misure e ai suoi valori che non mi riguardano, è degno di fede, di lode, di fiducioso abbandono.

Vi ho tediato? Ugo mi fa cenno di sì, e vi saluta con accorata solidarietà.

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