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Piccioni in volo dal Paradiso a Palermo

Blog E se Spencer Tracy e Jean Gabin, un giorno di luglio, tornassero dall'Empireo per volontà divina sotto forma di pennuti? E per sbaglio atterrassero, non a Hollywood come promesso dall'Altissimo, ma a Mondello? Troverebbero la città in festa per la Santuzza, una città, però, in evidente decadimento, non solo fisico, nel decoro di edifici e luoghi pubblici, ma anche dei suoi abitanti, poco empatici verso gli altri e capaci solo di battagliare per uno status quo senza prospettive

Nell’Empireo in quei giorni grande era il fermento: girava infatti la voce che per motivi di sovraffollamento fosse stato deciso uno sfoltimento programmato degli ospiti del paradiso. Questo sarebbe avvenuto nei tempi e nei modi che consentisse il progressivo svuotamento dei cieli, soprattutto dei più affollati per dare spazio ad altre anime. Il tutto sarebbe avvenuto secondo precisi criteri, neanche a dirlo, di assoluta trasparenza ed equità ma poiché tali regole non erano state ancora comunicate, tra i beati si diffuse un certo panico. La situazione venutasi a creare distoglieva dalla contemplazione di Dio e teologicamente parlando non era cosa buona e giusta perché ciò influenzava negativamente il clima di beatitudine associato a quei luoghi. La parte più cospicua individuata a tale esodo, in prima battuta pare fosse a carico del cielo delle stelle, quelle però cinematografiche. In questa sezione si trovavano messi insieme tutti gli attori più celebri di una volta e, nonostante fossero ormai trapassati, mantenevano del loro tempo mortale le arie da primadonna imponendo ancora capricci ed uzzoli che provavano duramente la pazienza degli angeli, loro custodi. Si trovavano in paradiso perché quasi tutti, tranne alcune pornostar godevano del compiacimento del Padreterno, da sempre patito di cinema, e quindi, più che per meriti religiosi, quei talenti artistici avevano fruito di una sorta di sommaria sanatoria dei loro vissuti. Ed era per questo che, nella nuova esigenza di spazio erano i primi a dover abbandonare la paradisiaca sistemazione.

Il cielo Empireo in un quadro di J. C. Snoop

Il cielo Empireo in un quadro di J. C. Snoop

Il primo contingente degli esodi previsti investiva le classi di nascita non dichiarate perché le attrici tendevano a barare, ma certificate, che dal 1900 andavano al 1930. Immaginate quale scompiglio si fosse generato tra i vari attori che cominciarono ad agitarsi nelle loro nuvolette allestite a camerini: ognuno drammatizzava con personale interpretazione stupore, diniego, perplessità. Fu istituito persino un comitato di protesta i cui rappresentanti nelle anime di Orson Welles, Isadora Duncan e Johnny Weissmuller si ersero a paladini della causa e chiesero un confronto con l’establishment del Paradiso. Fu una guerra persa perché ormai l’Altissimo aveva così decretato; l’unica concessione fu quella che il loro esodo fosse trasformato in un supplemento di vita da spendere nel luogo più caro agli attori, nella culla del cinema cioè Hollywood. Ma anche qui, per non impressionare i viventi con il ritorno di gente morta, il limite preciso fu quello di ritornare sotto forma animale. La scelta fatta per estrazione avvenne da una cornucopia celeste ed in onore alla bellezza, fu la bionda Marilyn, invero tra mille perplessità ed invidie, ad estrarre il biglietto su cui era tracciato la forma di animale in cui tutti si sarebbero reincarnati. Con fare lezioso ed ammiccante infilò l’esile mano dentro l’urna estraendo l’immagine della loro futura reincarnazione. Passò il biglietto ad Orson Welles il quale con il suo profondo timbro di voce lesse agli astanti: genere Columbrida domestica, cioè piccione. La povera Marilyn fu subissata da critiche; la incolparono di leggerezza, di essere sempre concentrata sulla sua immagine di icona sexy e quindi di aver insomma fatto, come al solito, una scelta sbagliata. Tra rimbrotti, minacce di fuga, (ma come?) arrivò la comunicazione della data del giorno stabilito per l’esodo. A tutti fu distribuito un piano di trasmigrazione perché ognuno una volta divenuto piccione, potesse seguire la rotta indicata e non trovasse difficoltà nell’orientarsi soprattutto perché si trattava di volatili, di norma stanziali. Il colpo d’occhio era notevole e la loro migrazione fu un momento veramente emozionante. Tutti alle prime esperienze di volo libero, lanciatisi liberi nell’aria ruotavano facendo capriole e lanciando forti grida, chi di spavento, chi di eccitazione. Elvis allora, per farsi coraggio e darlo agli altri, intonò le note di Glory Glory Hallelujah e fu subito un’emozione celestiale a cui si unirono tutti. La varietà dei timbri delle voci e le divere estensioni vocali rendevano quel coro polifonico e, a fronte dei miseri involucri pennuti fu un esempio paradisiaco di tale armonia che suggellava al meglio la solennità del commiato. Ne nasceva così una struggente coreografia che rapiva l’attenzione di tutti gli altri ospiti del paradiso in una contemplazione che non aveva pari. Lo stormo procedeva compatto traendo dalla simmetria del gruppo la forza e la potenza sostenitrice del volo.

Piccioni in volo

Piccioni in volo

Accadde però che due piccioni, posti ai margini della compagine aerea, distratti forse da una corrente ascensionale anomala, si distaccassero dal gruppo ma non se ne preoccuparono sicuri di raggiungerlo prima o poi. Erano i piccioni Spencer Tracy e Jean Gaben; erano stati messi assieme per motivi anagrafici ma fondamentalmente diversi, cominciarono nel volersi sopraffare nelle decisioni a litigare perdendo oltre la pazienza, la rotta indicata. Volarono e volarono coprendo migliaia di miglia fin a quando, superata l’atmosfera terrestre cominciarono a rendersi conto di non aver più contatto con il gruppo. Volavano stanchi e in silenzio, ognuno perso nelle proprie riflessioni ed ognuno non fidandosi più dell’altro ma cercando di far affidamento sulle proprie decisioni personali; certo non era il caso di separarsi come in fondo avrebbero voluto, ma se lo ripromettevano quando avrebbero ritrovato il raggruppamento di partenza. Acuirono così i propri sensi e quando ormai non ce la facevano più avvistarono come un puntino lontano la grande insegna bianca: erano a casa! Il puntino bianco che diventava sempre più grande nel verde della montagna era la scritta che da Mount Lee si affaccia sul distretto di Hollywood, a Los Angeles. Erano arrivati! Le care maiuscole e grandi lettere, il simbolo della più grande industria cinematografica del mondo facevano da faro guida al volo, riempiendo i loro piccoli cuori per la serenità ritrovata. Ed ecco finalmente la spiaggia di Palm Beach.

Spencer Tracy disegnato da Charles Bragg

Spencer Tracy disegnato da Charles Bragg

“Atterriamo, atterriamo” ripetevano in continuazione mentre la testa girava e lo stomaco borbottava per il lungo digiuno. Muovevano da ubriachi i primi passi sulla terra ferma mentre una calura insopportabile li investiva avvolgendoli tutti. Quanti anni erano stati lontani! Ma qualcosa non li convinceva: come quando da adulti si ritorna in luoghi frequentati da bambini e tutto sembra ridicolmente rimpicciolito anche qui avevano la stessa sensazione che non volevano confessare ma che li rendeva timorosi. Ma come era possibile che le montagne ed adesso la stessa spiaggia fosse così cambiata, più ristretta, quasi impoverita. Forse pensarono, era stato l’effetto di una mareggiata! E dov’erano i loro compagni? Non vedevano nessuno. Poi sul molo ne videro due intenti a frugare dentro un tovagliolo di carta e si precipitarono verso di loro ma questi sembravano non riconoscerli e continuavano a piluccare pezzetti di cibo dividendoselo nelle beccate. Spencer allora, prese coraggio e disse: “Do you understand me?” Quelli, con i becchi spalancati li guardarono inebetiti ed allora Jean disse: «Mais vous ne nous reconnaissez pas?». Uno dei due piccioni locali, quello con l’aria più sveglia disse all’altro: «Talè! va chiama a Totò!». Quello senza muoversi di un millimetro urlò: «Totòòòòò, Totòòòòò, arricampati!». Era Totò il piccione ‘ntiso della zona, nutrito a muddiconi e rascatura; conosceva i rudimenti delle varie lingue per la lunga frequentazione con gli stranieri di passaggio di cui cercava di attrarre l’attenzione per ricavarne qualche pezzo di cibo. Intelligente e perspicace, sapeva riconoscere subito lo straniero generoso. Aveva imparato perfettamente che i più prodighi erano i francesi mentre i tedeschi non lasciavano niente di quanto comprato e quindi non c’era da fidarsi. Incuriosito dal fatto dunque abbandonò per qualche minuto le sue relazioni internazionali e trottorellò sulle piccole zampe che faticavano a sorreggere quel corpo dilatato dal troppo benessere. Gli strani piccioni forestieri capirono che lui poteva risolvere la questione e gli si fecero incontro ripetendo: «Is this Holliwood?, Is this Holliwood?».

Jean Gabin disegnato da Maria de Faykod

Jean Gabin disegnato da Maria de Faykod

Totò non potè resistere e rotolandosi a terra per il gran ridere rispose: «Ma che minchia riciti! Che Hollywood e Hollywood, siete a Mondello, Palemmo, Sicily, Italy».Spencer e Jean impallidirono sotto le piume, ebbero quasi un leggero mancamento e seppero solo sussurrare «Palermo, mafia! Oh my God!», al che Totò replicò «Sì, sì mafia, mafia. A Palemmo siete!». Nel frattempo la notizia del loro arrivo aveva fatto raggruppare un capanello di piccioni curiosi che si stringevano in cerchio e la cosa era talmente particolare che presto s’arricamparono anche gruppi dall’Addaura, da Sferracavallo, dall’Arenella e persino da Brancaccio. Ognuno voleva vedere, voleva toccare questi cugini d’oltre oceano e mai avrebbero potuto immaginare che in realtà questi due fossero due colossi del cinema mondiale. Spencer e Jean erano più morti che mai: stremati dal lungo viaggio, precipitati in un corpo di piccione, lontani dal loro gruppo e per di più finiti nell’insidiosa Trinacria. A loro non rimase che rassegnarsi alla sorte bislacca ed affidarsi alla spontanea ospitalità siciliana che nel frattempo in quattro e quattrotto aveva racimolato un banchetto di accoglienza, ammucchiando per loro gli avanzi di cibo buttati a terra, (neanche a dirsi) accanto ai cassonetti della spazzatura.

Mondello

Mondello

Spencer e Jean erano attoniti, neanche la più ardita scrittura creativa avrebbe potuto raccontare quello che loro stavano vivendo; nessuna delle centinaia di sceneggiature lette nella loro carriera si avvicinava a quella vita fatta di marciapiedi sconnessi e roventi, di parti inferiori di automobili con le loro marmitte incandescenti pronti a tracciare scure corsie di bruciature sui dorsi, di gatti randagi in agguato e topi grandi come scoiattoli. Tra l’altro, dopo l’iniziale curiosità, la popolazione aviaria palermitana, sempre pronta come è caratteristica dei siciliani, a far calare qualunque interesse per le novità, ritornò ai luoghi abituali riprendendo le vecchie abitudini e loro si ritrovarono in breve tempo a doversi organizzare da soli. Avevano capito che quello dove si trovavano era un borgo marinaro molto frequentato e, dall’enorme calura, dal posteggio selvaggio e dal continuo andirivieni di individui non poteva nascere niente di buono per cui la cosa migliore era quella di cambiare aria e cercare rifugi più sicuri. Facendo corti voli si spostarono in un viale alberato e tra le fronde dei grossi alberi di Kapok fioriti scoprirono il diletto di defecare dall’alto dei rami scommettendo tra loro due chi fosse così bravo da centrare con le loro feci acide ora il parabrezza ora il cofano delle macchine posteggiate meglio se scure o metallizzate. Spencer era diventato bravissimo riusciva, forse perché più snello, a cogliere con il suo guano bersagli piccoli e difficili come le spazzole dei tergicristalli o gli specchietti retrovisori delle auto. Indaffarati in questo tipo di attività non si erano accorti di un altro piccione che alloggiava sui rami superiori e li osservava nei loro giochi coprologici; fu solo il suo continuo tubare che attirò la loro attenzione: era una splendida femmina che li guardava accovacciata e sognante. Pur nella nuova loro condizione compresero chiaramente i messaggi un tantino sfacciati che la pennuta affidava al linguaggio del corpo; Cannella, era questo il suo nome, forse coglieva in loro qualcosa di esotico, di straniero che esercitava su di lei un oscuro potere di attrazione. Pur rimanendo immobile, gestiva millimetrici fremiti che davano alle sue movenze ondate invisibili di seduzione. Insomma, era pronta ad accoppiarsi in modo democratico ed imparziale con tutte e due. Questi, di contro la guardavano covando spinti desideri: Spencer trovava alcuni tratti della sua amata Katharine; Jean in quel roco tubare, la magia della voce di Marlene. Subito cominciarono a ripulirsi dei parassiti che già li infestavano e per istinto gonfiavano il collo, spostando la testa in avanti ed indietro iniziando, al contempo a fare in circolo una danza di corteggiamento; quando ormai le distanze tra loro erano quasi azzerate e l’accoppiamento inevitabile, l’intreccio dei rami destinato a comoda e peccaminosa alcova dei tre si trasformò in campo feroce di battaglia; un enorme piccione, probabilmente il compagno storico della femmina, planò improvvisamente per riappropriarsi della sua amata ed a colpi di becco e di speroni colse impreparati gli sventurati corteggiatori.

Palermo, centro storico

Palermo, centro storico

La gelosia, il senso di possesso, agli occhi dei due lo trasformarono in rapace: sembrava possedere un’energia così forte che i miseri pennuti trafitti dalle beccate e dalle spine della corteccia dell’albero precipitarono sul marciapiede sanguinanti e malconci. Con il fiato corto e mezzi spennati cercavano di riprendersi stando in silenzio e meditando sul loro incerto futuro! Cominciarono ad allontanarsi usando un’estrema cautela. Prima con brevi svolazzi e poi spiccando voli sempre più lunghi trasvolarono il grande parco della Favorita, pieno di donne che passeggiavano avanti ed indietro, probabilmente per godere della bella aria. Ad un certo punto dall’alto videro una grande piazza con un obelisco al centro. Incuriositi scesero. Ormai lo sapevano: Palermo era piena di piccioni e si disposero quindi alla ricerca dei loro simili. Puntualmente questi spuntarono: era una vecchia coppia gay, che dal modo di interloquire tra loro palesavano le loro affinità elettive ed un particolare garbo nel rapportarsi. Dei due, uno sembrava più vecchio, più saggio; era l’unico che parlava i rudimenti della loro lingua; la sua livrea era spenta nel colore e gli dava un aspetto provato, stanco. Possedeva una sola zampa completa mentre l’altra era ridotta a moncherino e, camminando gli conferiva un’andatura fortemente claudicante. Spencer e Jean si interessarono subito alla sua menomazione chiedendogli senza troppo riserbo come fosse accaduto ed egli si ripropose di raccontarglielo; ma prima li volle avvertire che quella zona, per cibarsi, non andava molto bene: qui disse, sono tutti a dieta e mangiano poco e quindi i cassonetti sono scarsi in resti alimentari. Piuttosto conveniva appostarsi all’uscita di qualche panificio o bar per poter rimediare qualcosa; inoltre li invitava a stare attenti perché la gente benestante, quella che ha una vita agiata, non è capace di provare empatia né con gli uomini né con gli animali e quindi, essendo particolarmente efferata, non esitava a ricorrere a sistemi crudeli ed invalidanti come quello di offrire riso avvelenato o, come era successo a lui, tendere agguati resinosi la cui unica soluzione era amputarsi a morsi la zampa incollata.

Spencer e Jean impallidirono davanti a questi racconti e gli chiesero come mai non andassero via da quel posto. «Guardate – rispose il monco – questo è uno dei posti più belli della città; i palermitani chiamano questo monumento “a statua” ma il suo nome completo è “la statua della libertà”. Posta alla fine della strada principale della città svetta su tutto e si vede anche a grande distanza. Sorregge la Nike alata in cima all’obelisco per ricordare a tutti quanti eroi sconosciuti, perlopiù picciutteddi, (kids, per capirci) patirono affinché la Sicilia fosse unita all’Italia, e quanti ancora morirono poi nel primo conflitto mondiale. Poi li invitò con orgoglio a guardare ed ascoltare le parole incise in epigrafe sul monumento ai caduti che lo rendeva talmente orgoglioso da lasciarsi scappare qualche lacrimuccia di commozione; lesse, ma piu chè altro recitò, a memoria : “riecheggi nella coscienza dei popoli il tuo ruggito, o Palermo, sfida magnanima a tutte le perfide signorie. Auspicio di liberazione a tutti gli oppressi del mondo”. Poi, ritrovando il buonumore della latitudine aggiunse facendo l’occhiolino: «…e, detto tra noi, la cosa che ci fa impazzire è il buttarsi a volo libero dalla cima dell’obelisco ed atterrare facendo il giro a spirale sulla piazza! noi lo facciamo da anni e… credetemi, è meglio di Disneyland». Spencer e Jean ascoltarono attenti ma alla fine decisero di andar via perché a loro stava a cuore soprattutto l’approvvigionamento del cibo, per accumulare l’energia utile per raggiungere il gruppo che avevano perso. Quindi salutarono i nuovi amici e, su loro suggerimento imboccarono la via Libertà nel senso di marcia attuale alla ricerca di una sistemazione sicura che potesse anche garantire almeno un pasto decente.

Gli amici gay della statua, poiché si era a metà luglio, suggerirono indicandogli la strada, di portarsi alla Marina che, in occasione dei festeggiamenti della Santa Patrona di Palermo, poteva rappresentare e garantire una sicura e variegata riserva di cibo. Lungo il Foro Italico e nelle zone ad esso prospicienti, si dava infatti l’inizio ai festeggiamenti. Ogni anno, già da qualche giorno prima si allestivano in fila serrate, le bancarelle illuminate a festa dove s’impilavano quantità spropositate di frutta secca, detta scaccio, consistenti in arachidi, noci, semi di zucca salati e non, pistacchi e morbidi lupini; a queste seguivano le postazioni rumorosissime dei mulunari dove rabberciati ed inquinanti gruppi elettrogeni tenevano in vita e in un ghiaccio semisciolto, bagnomarie di angurie rosse, di acque forse potabili e di bibite agghiacciate. Lo scaccio è l’indispensabile preludio commestibile di ogni festa di piazza, l’accordo musicale del cibo da strada, l’ouverture di ogni festino e poiché una semenza tira l’altra, ritrovandosi con la lingua gonfia ed amara per il troppo sale, si tracanna di seguito una o più freschissime birre. A questo punto si è pronti a procedere al successivo passo del suicidio alimentare. Nelle panze ammarrate di granaglie, comincia la stratificazione dei tipici cibi, croce e delizia dei palati palermitani: arancine a carne o a burro; insalata di polpo, panini con panelle e crocchè, sfincione, pane ca’ meusa, pollanchelle fanno il loro ingresso in apparati digerenti già così fortemente compromessi. Ma non è finita! Perché, come la masculiata finale sta al gioco di fuoco, così i babbaluci stanno al pasto del festino. I babbaluci rappresentano infatti la chiusura, il trionfo finale della festa, l’ultima occasione per differire il mesto ritorno a casa. Ed ognuno affronta con le armi personali l’assalto all’animale più mite della terra, la lumaca, aggredendone la chiocciola con lo spillo, lo stuzzicadente o un canino conservato bene con cui si effrange il chitinoso guscio per succhiarne con soddisfacente risucchio la gustosa preparazione del copioso soffritto in olio d’oliva di aglio, pomodoro pelato e tanto tanto prezzemolo.

Babbaluci

I due piccioni arrivarono con facilità alla Marina un po’ per le corrette indicazioni avute, un po’ perché avevano individuato la moltitudine del fiume umano che riempiva le carreggiate già chiuse al traffico. Si posizionarono per sicurezza nel lucernario di un vecchio palazzo prospicente il corso; questo doveva essere sicuramente di elevato interesse storico munito com’era di piccole torri, terrazze e pregevoli elementi decorativi; ma i fregi danneggiati, le finestre rotte ed i vetri deformati dal tempo e dall’incuria apparivano come pallidi superstiti di se stessi e, nonostante fosse evidente il loro rapporto a circostanze storiche ed architettoniche importanti era in così orrende condizioni da essere difficile immaginare il suo aspetto originario. La famiglia proprietaria, o quel che ne rimaneva, sicuramente ne aveva cambiato la destinazione d’uso affittando sotto forma di associazione culturale le terrazze ed offrendo una cena in catering per fare assistere agli associati la processione di Santa Rosalia; ma i saloni svuotati e la vendita di arredi, suppellettili e quadri conferivano un’atmosfera di squallore e di tristezza incomparabili e tutto appariva miseramente compromesso come colui che, sopraffatto da nuove e misere condizioni si ostini a palesare i ruderi di antiche glorie.

Questo pensavano i nostri attori nelle vesti di piccioni e di questo si immalinconivano. Riflettevano ancora su come il tempo corrompa tutto; di come la vecchiaia sorprenda gli uomini e li trovi impreparati al declino, proprio nel momento migliore, quando si ha piena e matura consapevolezza di sé stessi. Di come degradi la bellezza degli edifici mutandone intorno il contesto urbano, sociale per cui neanche il ricordo riesce più a conservarne la sacralità dei suoi pregi. Solo ciò che non è materiale forse si conserva e si tramanda nel tempo, mutando negli aspetti esteriori, nelle forme ma conservandone e consegnandone gli elementi indispensabili di sopravvivenza che fanno le tradizioni, i credi religiosi. Questi insostituibili, insopprimibili vengono difesi dalla memoria della gente che ad essi non può rinunciare. Ed è avvenuto così anche per il popolo palermitano da sempre aggiogato alla forza dei potenti, quando nei tempi che furono, osò alzare la testa contro il viceré Caracciolo che, in occasione di un terremoto a Messina, aveva pensato di ridurre da cinque a tre giorni, i festeggiamenti in onore di Santa Rosalia. Egli dovette recedere dal suo proposito perché pesantemente minacciato addirittura nella sua incolumità fisica da una moltitudine di cartelli disseminati per le strade di Palermo con su scritto “o festa o testa” che riassumevano e minacciavano la precisa volontà di un popolo assolutamente analfabeta.

L’alba successiva al festino fu plumbea e ventosa. Sembrava che la Santa, stanca di un popolo scarso in fede autentica che reagiva in modo quasi superstizioso alle miserie della vita esorcizzandone la precarietà con abbuffate fameliche, luminarie e botti, avesse ceduto la mano al soffio purificatore del maestrale. Abbandonava quei luoghi per ritirarsi nella solitudine del suo eremo disgustata dall’incuria della popolazione che come ogni anno, residuava una incredibile devastazione ambientale dove un tappeto di rifiuti invadeva ogni spazio urbano. Spencer e Jean che durante la processione non si erano sentiti di mischiarsi alla folla e meno che mai farlo durante i botti dei giochi d’artificio, alla fine dedicarono quelle ore di festa degli umani al sonno e, tenendo il capino sotto l’ala cercarono in quel riposo il recupero delle energie. La mattina successiva, nel grande prato mediterraneo, tra gli umidi fili d’erba gramignone procedevano nella solitudine e nella nuova condizione di falsi volatili, stavano vicini, alla ricerca di cibo, beccando nei baccelli sputati i residui dei semi di zucca ed i pezzetti di pasta e di arancine rimasti integri. Poi saltellavano sulle scorze di mellone dove piluccavano la polpa rossa non ancora acida beandosi del suo il gusto zuccherino e dell’acquoso succo. Da quando avevano lasciato il Paradiso ed erano stati catapultati di nuovo sulla terra in un diverso assetto corporale, il trovarsi di nuovo vivi ed in una nuova condizione li sconvolgeva: era peggio di quando la morte li aveva sorpresi, vecchi uomini, nella vita. Perché questo non lo avevano cercato, non lo avevano voluto. Loro che erano diventati puro spirito si ritrovavano di nuovo soggetti allo stimolo della paura; riavvertivano la pulsione prepotente alla sopravvivenza, la ridicola e paradossale necessità di tutelare quel nuovo loro vivere anche in corpi da uccelli a cui in fondo adesso andavano abituandosi. Ma forse era questa la vera punizione o il vero premio. Era l’opportunità raramente concessa di mettersi nei panni di altri, di comprendere le altrui esistenze e di valutare le cose da altri punti di vista anche se questa, era quella degli occhi di un semplice piccione.

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