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Fermata d’autobus

Blog Capricciosi passavano quando volevano loro gli autobus nella periferia palermitana. Nonostante le lunghe attese, con tanto di pesante spesa al seguito, la sagoma di un torpedone in arrivo eccitava quella pletora di umanità appiedata, che si disponeva piratescamente all’arrembaggio. L’animo assolveva il ritardo così come si indulge commossi alla scappatella di un amante che ritorna

“Scusassi signora… ma che fa,  passò a seicentoventotto? ”. “Noo, ancora  no! Avi chi sugnu ka  io! Mah! chi c’è ri fari… Aspittamu…”. La donna carica di spesa si appoggiò al muretto prospiciente la fermata dell’autobus; all’interno dei sacchetti riposava serena la spesa fatta all’hard popolare.

Pur avendo le dita anchilosate e livide per il carico appeso alle falangi, dispose con cura le buste dilatate dagli ingombri dietro il riparo sicuro delle sue gambe. Avrebbero dovuto durare almeno una simanata, pensò, a meno che si fossero arricampati a casa quelle camurrie di  figli e nipoti che erano sempre affamati, a qualunque ora del giorno. Appesantita dagli anni e dai chili, affrontava ogni lunedì mattina la fatica della spesa che, insieme ai farmaci, era diventata la sola forma di acquisto consentito. Appoggiava le spalle dolenti alla cancellata sopra il muretto posando a metà anche le natiche per un parziale riposo. A volte sul muretto, promosso da tutti spazio di attesa degli autobus, non c’era più posto e chi rimaneva fuori passeggiava avanti ed indietro per alleviare la fatica di stare in piedi. Nella periferia palermitana gli autobus erano anarchici convinti.

Capricciosi passavano quando volevano loro; anche le tabelle completamente sbiadite, erano mute ed ognuno sapeva quale autobus prendere per scienza innata, come un messaggio geneticamente trasmesso. Non c’era nessuna regolarità nelle corse andando e venendo così come capitava: a volte dopo anche una ora d’attesa ne passavano due o tre di seguito e tutti nella stessa direzione tra le inutili proteste della folla inferocita. La donna, con l’ostinazione degli anziani, teneva puntato lo sguardo sul traffico di auto nella speranza di incrociare qualche conoscenza del vicinato  che le potesse dare un passaggio fino a casa. A volte, infatti succedeva che qualche autovettura improvvisamente si fermasse a caricare qualcuno. Il baciato dalla sorte  facendo un salto sul sedile offerto, faceva  il salto di qualità  e, tra l’invidia degli astanti, si accomodava sorridente sul sedile dimentico della sua appena trascorsa condizione, così come accade di solito a chi è colpito da improvviso benessere.

La fermata ora si andava sempre più arricchendo di gente. L’orario infatti,  era quello di fine lezioni scolastiche e molti studenti schiamazzavano, i più piccoli spintonandosi tra loro, i più grandi intrattenendosi in adolescenziali schermaglie amorose. Su tutti, l’aria di frittura che l’intraprendente panellaro  lasciava libera di insinuarsi tra le narici vogliose. L’attività imprenditoriale, oculatamente piazzata alla confluenza delle due strade catturava infatti la simultanea utenza di più linee di autobus che, arrendendosi capitolava alle delizie da strada di araba memoria.

Quando ormai il marciapiede era affollato, arrivarono gli uomini dalle cravatte a strisce, i controllori, e tutti intuirono che un autobus stava arrivando; la loro presenza, generava una ondata di panico, soprattutto in chi era sfornito di biglietto. “Io ce l’ho”, pensò la donna e si tastò per conferma, la tasca del vecchio spolverino color grigio topo.

La sagoma del torpedone eccitava quella pletora di umanità appiedata, che si disponeva piratescamente all’arrembaggio. L’animo assolveva il ritardo così come si indulge commossi alla scappatella di un amante che ritorna. “Ka è!” e  tutti si confortavano sorridenti! I più fortunati dotati di maggiori diottrie riuscivano subito a smorfiare il numero della linea; gli sfavoriti e gli anziani si affidavano ai primi querelando: “ che nummaro è… che nummaro è…” .

La donna solo per un momento abbandonò la cura parentale dei sacchetti e cominciò a chiedere con tono arrochito: “E’ a seicentoventotto? E’ a seicentoventotto?” Qualcuno le rispose con malgarbo: “Si! Si! Si! a seicentoventotto è !”. In questa popolare riffa da marciapiede, il palese disvelarsi del numero estratto, faceva esultare i vincitori della corsa mentre gli altri rinculavano sconfitti, e con le spalle curve si disponevano ad un altro supplemento di attesa.

Il miraggio pian piano diventava realtà, e la pesante vettura bloccando rumorosamente la sua andatura, era lì in lamiera, motore e polvere. Nelle bussole aperte  accoglieva nel suo abbraccio fatto di caldi aliti umani quel carico d’umanità  mista di dolore, sconfitte e speranze mentre il clamore  aggressivo dei clacson intorno, protestava insofferente reclamando il  proprio diritto alla marcia.

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