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Lode al prudente passo a ritroso del gambero

Blog Mi convinco sempre più che tutte le più degne aspirazioni nutrite dai giusti, dai progressisti, dagli “ottimisti di sinistra” (uguaglianza fraterna, giustizia e libertà, felicità e benessere per tutti) non saranno mai appagate procedendo in avanti ma, al contrario, arretrando. Al pari, però, di ciò che pensavano Marx o Pasolini le mie nostalgie anti-moderne, non sono necessariamente reazionarie. Auguro di vivere in un mondo che scelga di procedere "lentius, profundius, suavius"

Lo dico subito: appartengo all’inattuale schiera dei letterati, mai come oggi marginale e votata tutt’al più all’intrattenimento; come i più nobilmente attardati fra loro, e (si parva licet…) come Dante, detesto “la gente nova e i subiti guadagni” (l’allora albeggiante capitalismo), e anzi penso che già in quei secoli remoti ci sarebbero state alternative possibili al devastante primato dell’economia e della finanza. Tuttavia non mi pronunzierò su Mammona (il denaro disprezzato da Cristo: ah, quel frainteso “date a Cesare”, di quanto disprezzo era carico!), ma su temi e istanze oggi altrettanto obsoleti, perciò esclusi dal dibattito corrente, dai talk show coi giannizzeri di Draghi o con gli epigoni di Scalfari, coi tifosi di Zalenski o di Putin, con filosofi o storici dell’arte avviliti nel ruolo di comari rissose. E allora?

Vedi alla voce amore. Già proprio l’eros o l’agape, che liberino le forze un tempo antagoniste dalla cultura di potere che condividono coi loro avversari, e le facciano riappropriare di quel nucleo originario che attinsero dal cristianesimo evangelico, quello della giustizia degli “ultimi che saranno i primi”, quello della solidarietà vissuta con i dannati della terra, della pratica quotidiana e sofferta della comprensione, della condivisione, del servizio. Voi lo chiamate populismo? Mi sta bene, se penso non a Grillo o a Salvini ma a Herzen o a Mazzini, a Tolstoj o ai piccoli grandi eroi del populismo russo ottocentesco.

Lode al gambero, al suo prudente passo a ritroso. Lode al generale Kutuzov, che sconfisse Napoleone arretrando e rifiutando la battaglia aperta. Lode ai filosofi taoisti, che assecondano il respiro cosmico rifiutando di alterarlo con l’azione; e ai maestri di judo, che ci insegnano a vincere desistendo, nell’attesa d’un varco aperto dall’irruenza avversaria. Lode a Colui che disse, inascoltato, che solo rinunziando si guadagna già quaggiù «il centuplo in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi». E all’insegna dell’appetibile crostaceo e del suo passo sbilenco dirò cose difficilmente condivisibili. I più benevoli mi daranno del laudator temporis acti, altri – chissà – mi accuseranno di… “scrivere a destra” (titolo del mio penultimo libro). Me ne farò una ragione.

“Shrimp” artwork di Sharon West (clicca e vedi il profilo dell’artista)

Il fatto è che mi convinco sempre più che tutte le più degne aspirazioni nutrite dai giusti, dai progressisti, dagli “ottimisti di sinistra” (uguaglianza fraterna, giustizia e libertà, felicità e benessere per tutti) non saranno mai appagate procedendo in avanti ma, al contrario, arretrando. Non è un viaggio verso la Terra Promessa, già disastroso per il popolo d’Israele, che occorre replicare dandogli il nome di “progresso”, bensì qualcosa di simile al ritorno al Paradiso Terrestre, che cancelli quella condanna cui diamo il nome di “storia”, tramuti in gioia di vivere l’alienazione nel lavoro, elimini le disuguaglianze e le costrizioni, rimuova quel lenzuolo steso sopra montagne di cadaveri che reca scritto “civiltà”.

Di queste istanze si fece carico nell’Ottocento il “socialismo utopistico”, così detto – e disprezzato – dai sostenitori di quel “socialismo scientifico” la cui scienza non ci avrebbe regalato che dittature e carneficine, dalla Russia alla Cina. Ma oggi?

Oggi dinanzi a noi non c’è che la catastrofe, ambientale e umana, e già scalpitano i destrieri dei quattro cavalieri dell’Apocalisse; alle spalle, invece, c’è un Eden quanto meno da sognare, dove «il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà; la vacca e l’orsa pascoleranno insieme, si sdraieranno insieme i loro piccoli; il leone si ciberà di paglia, come il bue; il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi».

E se proprio “il lupo non dimorerà con l’agnello”, si tratterà almeno di «abbandonare una fede o una religione, quella dell’economia, del progresso e dello sviluppo», in favore di «una società nella quale si vivrà meglio lavorando e consumando di meno» (Serge Latouche), in cui l’austerità, la sobrietà, il rigore, congiunti alla riscoperta dell’agio, della libertà, dell’affettività, dei valori travolti dalla deriva capitalistica, tornino a fondare la convivenza umana, gli stili di vita, le leggi.

Serge Latouche, teorico della decrescita, foto di Niccolò Caranti

Nostalgie conservatrici, le mie? Le condivido con un’autorità insospettabile: «Dove è giunta al potere, la borghesia ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco […]. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni».

Chi l’ha scritto? Un nostalgico del Medioevo? Un intellettuale di destra? No, lo scrisse Karl Marx, proprio lui, il capostipite di quell’altezzoso socialismo che si dichiarò “scientifico” e proiettò mezzo mondo verso un sol dell’avvenire forse illusorio, ma prodigo di conquiste sociali. Ne traggo conforto: le mie nostalgie anti-moderne, dunque, non sono necessariamente reazionarie. Anzi, non c’è autentico rivoluzionario che non sia anche un conservatore: di valori calpestati, di bellezza oltraggiata.

Karl Marx nel celebre ritratto fotografico (1875) di John Jabez Edwin Mayall

Ricordate Pasolini? «Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore. / Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono vissuti i fratelli».

Pier Paolo Pasolini

E Berlinguer, teorico dell’austerità, uno dei rarissimi politici che tentasse di restituire moralità alla politica? Disse: «Il PCI deve essere un partito rivoluzionario e conservatore»; e sembrò un ossimoro, che per alcuni confermava l’ambiguità di quel partito, per altri il suo cedimento ai valori dell’Occidente capitalistico. E invece – si pensi quel che si vuole di Berlinguer e anche delle sue esitazioni e dei suoi errori – era una verità che nessuno colse, diviso com’era quel partito tra un’idea di rivoluzione disastrosamente fallita in URSS e nei paesi comunisti e un’idea “migliorista” di cauto “sviluppo” nel contesto indiscusso del mondo com’era.

Gli eredi di quel partito e il fronte progressista ora predicano uno “sviluppo sostenibile”, l’ultima e la più stupida delle menzogne via via propinateci. Insomma uno sviluppo con juicio, qualcosa come il sesso con profilattico o meglio come una gragnuola di legnate ma con le scuse dell’aggressore. E invece non c’è via di mezzo tra l’olocausto e l’utopia, tra il precipitarsi in avanti, aggrappati alla zattera alla deriva del mondo com’è, e lo scegliere, piuttosto, il cauto e pacifico passo indietro. Non c’è perché quella via possibile o presunta sarebbero gli uomini a praticarla, e non può esserci salvezza che provenga da quegli animali ottusi e feroci, nemici di se stessi e della terra che li ospita. C’è solo un bivio: da un lato un’ampia e agevole spianata ma piena di salme e di macerie, dall’altra la porta stretta d’una difficilissima, quasi impossibile ma necessaria, regressione (chiamatela, se volete, decrescita): «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano. Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano!» (Matteo 7, 13-14).

Ho avuto la fortuna di nascere negli anni della “ricostruzione” post-bellica, anni di dure economie, di pacifica sobrietà: rinunziare a un giocattolo agognato, facendo finta di sdegnarlo, era per me bambino una segreta gioia. E volete mettere il fascino della rinunzia, Humphrey Bogart che lascia partire da Casablanca l’amata Ingrid Bergman, o il giovane maratoneta di Gioventù amore e rabbia – obliato titolo del free cinema inglese – che primo al traguardo si rifiuta di varcarlo, arrestandosi a un passo dalla vittoria? Sono piaceri che solo gli eletti sanno delibare, ma per entrare in quella schiera occorre una radicale metánoia: per dirla con Nietzsche, una “trasvalutazione di tutti i valori”.

Ben altro che un giocattolo o un’Ingrid oggi intona il canto suadente delle sirene tentatrici di Ulisse: è un consumo compulsivo, è una hybris voracemente accumulatrice, è l’assuefazione a un mondo fondato sull’iniquità e la sopraffazione, votato all’autodistruzione. E se la pandemia, il disastro ambientale, la guerra di nuovo incombente ma minacciosamente totale, non fossero che i primi squilli della tromba angelica, i primi dei sette sigilli? Apocalisse 12,1-2: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto». Se il primo essere umano, nella Scrittura, è un maschio, destinato a decadere dalla purezza originaria al peccato (e a iniziare la storia, che di peccato è intrisa), l’ultimo nell’Apocalisse è la donna, ed è lei (e non può essere che lei) a incarnare l’umanità intera redenta e la fuoruscita dalla penosa schiavitù nella storia, a soffrire le doglie del rinnovamento e della purificazione.

Oddìo, e se fosse Greta? Forse no, ma alle mie due figlie – donne come tante “di tenace concetto” e di solidi valori – auguro di vivere in un mondo che scelga di procedere lentius, profundius, suavius.

“Lentius, profundius e suavius” fu uno dei motti più noti di Alexander Langer

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