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L’individualismo sfrenato (senza social) ai tempi di Tucidide

Blog Parlando della pestilenza nel secondo libro del "La guerra del Peloponneso", lo storico dell'antica Grecia sottolinea anche la deriva sociale che investì il paese dove «nessuno era più disposto ad affaticarsi per ciò che era nobile» perché tutto era diventato incerto, un “ateismo pratico” che si univa a un senso di impunità davanti alle istituzioni. Cose mai viste nei secoli a venire...

Tucidide, secondo storico dell’antica Grecia, e primo a scrivere dei fatti del suo tempo in modo razionale (infatti non scrisse di “intromissioni” degli Dei nelle vicende degli uomini) è ricordato per la sua opera La guerra del Peloponneso, che vide protagonisti tra il 431-421 e il 404 a.C. gli Ateniesi e gli Spartani. Durante i 27 anni del periodo bellico, oltre alle battaglie per terra e per mare, gli assedi delle città e le occupazioni dei templi, avvenne di tutto: terremoti, eclissi solari e lunari, maremoti, carestie, uno Tsunami e la pestilenza. 

Lo storico greco Tucidide

E proprio la prima ondata di epidemia è descritta nel dettaglio nel secondo libro del La guerra del Peloponneso, anche perché l’autore ne ebbe esperienza sulla sua pelle. Viene raccontata nello stesso libro in cui si può leggere il famoso epitaffio di Pericle in memoria dei caduti, in cui si elogia la democrazia e la spinta degli ateniesi verso le glorie della morte per la patria.

Così Tucidide registra che oltre ai sintomi fisici, le persone iniziarono a comportarsi in modo strano anche in ambito psicologico. Il capitolo 53 è interamente dedicato alla deriva sociale che investì gli abitanti della Grecia. «Il morbo dette inizio a numerose infrazioni delle leggi», la gente osava fare quello che prima per vergogna, pregiudizio, pudore o educazione non faceva. «Consideravano giusto godere quanto prima e con il maggior diletto possibile, giudicando effimere sia la vita che le ricchezze». Si accese un individualismo sfrenato, tant’è che «nessuno era più disposto ad affaticarsi per ciò che era nobile» perché tutto era diventato incerto. «Quello che per il presente era piacevole e quello che, da qualsiasi parte venisse, era vantaggioso per ottenere quel piacere, tutto ciò era divenuto bello e utile».

“La peste in una città antica” del fiammingo Michiel Sweerts, opera del 1652

Insomma, al tempo di Tucidide, le condizioni del capitalismo e della globalizzazione a favore di social media, sorsero improvvise a causa del contatto con le innumerevoli morti e la precarietà della vita sotto la falce di una peste sconosciuta. Inoltre, «nessun timore degli dèi o delle leggi degli uomini li tratteneva, perché da un lato consideravano indifferente essere religiosi o no, dato che tutti senza distinzioni morivano; e dall’altro, perché nessuno si aspettava di vivere fino a dover rendere conto dei suoi misfatti e pagare il fio», quindi un “ateismo pratico” si univa a un senso di impunità davanti alle istituzioni. «Essi consideravano piuttosto che una pena molto più grande era già stata sentenziata ai loro danni e pendeva sulle loro teste, per cui era naturale godere di qualcosa della vita prima che tale punizione piombasse su di loro», anche perché, si sa, l’uomo è bravissimo a giustificarsi e a trovare scuse per le proprie malefatte, quale migliore di un evento collettivo così traumatico?

Alla prima occasione, aperta la gabbia della morale, l’uomo non perse tempo a dare sfogo al lato peggiore che teneva a freno. Per fortuna che oggi non è più così…




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