Blog Uno studente di Lettere della Federico II di Napoli si è suicidato perché non riusciva a rispettare i tempi imposti dall’università, per lo stress e la delusione che gliene venivano. Contro le università delle neutre "competenze" e che azzera la libertà, principio vitale degli studi universitari, elogiai anni fa i fuori-corso, spesso impegnati nell'associazionismo, persone che prendono la vita seriamente e la vivono con impegno laborioso e altruista
Leggo di uno studente di Lettere della Federico II di Napoli che si è suicidato, perché non riusciva a rispettare i tempi (studio, esami, laurea) imposti dall’università, per lo stress e la delusione che gliene venivano, per aver dovuto mentire ai genitori.
“Università bandita”? No, università disumana. Più di qualche concorso truccato (e ovviamente da perseguire) l’hanno snaturata le disposizioni governative dell’ultimo quarto di secolo, il creditificio, l’aziendalizzazione, il demone della “produttività”. Tempi regolamentati, saperi frantumati e banalizzati, mortificazione del pensiero critico a favore di neutre “competenze”, azzeramento di quel principio vitale che da sempre aveva animato gli studi universitari: la LIBERTÀ.
Anni fa pubblicai, controcorrente, un elogio del fuori-corso. Perché sì, sono stato un fuori-corso e me ne vanto: mi sono laureato con un anno di ritardo. Perché? Perché facevo politica, Sessantotto e occupazioni compresi, perché condividevo le attività di una comunità di studenti dalla vita molto intensa, perché dirigevo un giornalino, perché approfondivo le materie più amate più del dovuto, e infine (e perché no?) perché tenevo al mio tempo libero, agli svaghi, agli amori, alle amicizie, ai viaggi, e a quelle letture eccentriche e disparate, estranee ai programmi universitari, alle quali devo la mia più autentica formazione.
Sono stato un fuori-corso e continuo a ritenermi tale a vita, perché pretendo di gestire il mio tempo, i miei interessi, le mie occupazioni senza subire imposizioni e perentorie scadenze, senza prestare ascolto alle malefiche sirene della “produttività”.
Ma a quelle sirene l’università italiana ha ceduto, a costo di inabissarsi come stava per capitare agli incauti marinai di Ulisse. E in nome di una produttività grettamente aziendale, ha deciso di dar battaglia ai fuori-corso, di sbarazzarsene in qualunque maniera. Già, perché per ricevere adeguati finanziamenti gli atenei devono dimostrarsi privi di quella ingombrante zavorra, devono promuovere a più non posso per laureare tutti nei tempi previsti, devono coltivare studenti-ingranaggio puntuali e consenzienti, privi d’altri interessi, docili e sbrigativi clienti, accorti collezionisti di crediti, rimasticatori di nozioncine liceali.
Dalla mia remota postazione di felice pensionato, ricordo quando mi si chiedeva di approntare “programmi minimi” per i fuori-corso, da liquidare con voti anch’essi minimi, da 18 a 20. Minimi? Dante sì e Petrarca no? La rivoluzione francese sì e il risorgimento no? O, per altre facoltà: il cuore sì e i polmoni no? metà del codice penale sì e l’altra no? E oltre a sfornare asini, che diremo a chi ha studiato e studia, invece, su programmi corposi ed esaustivi?
Li ho conosciuti bene, i miei studenti fuori-corso. Quasi sempre tra i migliori, erano impegnati nell’associazionismo, prendevano sul serio la vita e la vivevano come un impegno esigente, laborioso, altruista, oppure prendevano fin troppo sul serio gli studi, si dedicavano a un esame o alla tesi come fosse (ed è bene che lo sia) un decisivo rito di iniziazione e l’agognato accesso al tempio del sapere; non, come per altri, una pratica burocratica da sbrigare al più presto. Oppure lavoravano per permettersi gli studi: e questa meritoria fatica va premiata con le dovute agevolazioni, non certo umiliandoli col ritenerli una sottospecie da eliminare.
Oppure… oppure avevano e hanno altri motivi, i più tristi o i più gioiosi, sui quali non tocca a me, né all’università, sindacare.
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