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Ad aprile nascevano Marlon Brando e Gregory Peck, due giganti del cinema vero

Blog Brando fu forse l’ultimo di quei giganti di Hollywood. E lo sapeva, tanto da incarnarla da tempo quella figura possente, quella rocciosa maestà. Quasi sempre più civile e accattivante, tuttavia, il Peck dei grandi film. Al grande Marlon io preferisco il meno grande (e meno gigione) Gregory. E preferisco il cinema vero, che comunica e coinvolge, al cinema "d’autore”, prediletto dallo snobismo dei sedicenti cinefili

Mi capita, talvolta, di spulciare le date di nascita dei grandi della letteratura o del cinema, come se in quelle ricorrenze si celassero astrali dispacci. E allora: in questi primi giorni d’aprile, fra il 3 e il 5, nacquero due giganti di Hollywood, Marlon Brando e Gregory Peck. Proviamo a interrogarli.

Brando fu forse l’ultimo di quei giganti. E lo sapeva, tanto da incarnarla da tempo, consapevolmente, quella figura possente, quella rocciosa maestà. Doveroso omaggio al mito è oggi quello di ritrovarlo nella testamentaria interpretazione del folle, ambiguo, smisurato Kurz di Apocalypse now. E vedere il suo cranio calvo, lo sguardo allucinato ma onniveggente, la quercia nodosa del suo corpo ingigantito emergere dalle limacciose putredini della palude cambogiana, dal nero liquame che scorre nelle più remote latebre dell’inconscio individuale e collettivo: l’uno e l’altro abitati da una smodata violenza.

Quella violenza, esplicitata fino alla follia e non più mascherata da fedi e ideologie, Kurz dopo averla ruminata nel suo delirio la faceva esplodere in un grido – “L’orrore!” – che da Conrad a Eliot a Coppola sventola come un’insanguinata bandiera sul Novecento delle menzogne e dei massacri. E basterebbe questo, basterebbe quell’ultima mezz’ora che conclude la discesa agli Inferi di Apocalypse now, a consegnare Marlon Brando alla leggenda, a fare di lui un mito. Un mito moderno, degradato e dannato, ma altrettanto possente di quelli di Dioniso o d’Edipo.

Marlon Brando è il colonnello Kurtz in “Apocalypse Now” di Coppola

L’ultimo, immenso Brando seppe andar oltre la mitografia hollywoodiana dei suoi grandi colleghi (icone come Bogart, Wayne, Stewart, Lancaster, Mitchum e via rimembrando). Da divo e debordante mattatore seppe assurgere infatti a incarnazione, a figura riassuntiva, d’un travaglio epocale, e non solo nei panni di Kurz nel film di Coppola, ma anche dell’inquieto e inquietante protagonista dell’Ultimo tango di Bertolucci, straccione divino che fa da dispotico demiurgo e insieme da vittima espiatoria di quel torbido dramma sessuale: un dramma che è a sua volta rappresentazione del conflitto edipico ma pure – ancora una volta – d’un più vasto e collettivo “disagio della civiltà”.

E fu anche don Vito Corleone: la mascella allentata, lo sguardo in tralice, la mimica vischiosa e invischiante del “padrino” (ancora Coppola!) si prestano forse all’equivoco, all’apologia della mafia: colpa sua, della sua coinvolgente bravura. Ma merito suo e di Coppola è aver portato le tragedie del nostro tempo – con tutti i rischi del caso – a dimensioni shakespeariane.

Marlon Brando nei panni di Vito Corleone nel “Padrino” di Coppola

L’attore di Omaha, Nebraska (come non pensare allo struggente blues di Springsteen, rievocando quelle desolate latitudini della geografia e dell’anima?) aveva iniziato la sua ruggente carriera all’insegna della rabbia giovanile degli “spostati”, reduci o ribelli, di Uomini di Zinnemann, di Fronte del porto di Kazan, del Selvaggio che aveva fasciato i suoi muscoli con una mitica giacca di cuoio e una maschera corrucciata.

Nasceva così l’icona-Brando: eppure lui sapeva anche essere Marco Antonio nella Roma antica ed Emiliano Zapata nel Messico delle rivoluzioni, l’ufficiale nazista dei Giovani leoni e quello nevrotico del Bounty o di Riflessi in un occhio d’oro: una versatilità rara nei divi d’allora, che interpretavano con monotonia solo se stessi e il proprio mito. Era già un gigante. Perciò non poteva essere che lui, ad emergere da quelle torbide acque palustri: e fu lui a inabissarvisi per sempre, diciassette anni fa, come il secolo buio che l’aveva visto svettare.

Marlon Brando in “Il selvaggio”

“L’orrore! L’orrore!”.

All’orrore si votò pure, ma nell’illusione maniaca di trafiggerlo con una fiocina e seppellirlo per sempre negli abissi marini, il Gregory Peck di Moby Dick: il tenebroso, invasato capitano Achab dalla gamba-dente di balena martellante sulle assi del ponte, l’antagonista puritano del Male assoluto in forma di cetaceo, l’implacabile inseguitore del­l’Os­sessione Bianca; infine, la carcassa avvinta al mostro in una lotta che si consumerà nei secoli dei secoli.

Gregory Peck è Achab in “Moby Dick”

Quasi sempre più civile e accattivante, tuttavia, il Peck dei grandi film, da Vacanze romane al candido ed eroico Atticus Finch del Buio oltre la siepe; ma anche percorso da venature di nevrosi nell’Io ti salverò di Hitchcock o simulante una scorbutica ribalderia nel melodramma western Duello al sole, con quell’indimenticabile finale che vede lui e Jennifer Jones amarsi ma darsi la morte, odiarsi ma cercarsi negli ultimi spasimi dell’agonia. Be’, lo confesso: al grande Marlon io preferisco il meno grande (e meno gigione) Gregory, forse perché da ragazzo mi dicevano che gli assomigliavo un po’.

La locandina di “Duello al sole”

E preferisco il cinema vero, che comunica e coinvolge, che sa parlare a tutti anziché a due o tre spocchiosi “intellettuali”. Lo preferisco al cinema “d’autore”, prediletto dallo snobismo dei sedicenti cinefili, che hanno confinato la Bellezza nell’angusto e maleodorante lazzaretto della noia, d’una penosa incomunicabilità. All’intera filmografia di Godard o di Rohmer, o della coppia diabolica Straub-Huillet, per non dire degli esibizionismi da uomo nudo superdotato in giardino pubblico dell’insopportabile Sorrentino, preferisco una sola sequenza, e magari un’inquadratura, di John Ford o di Howard Hawks, di John Huston o di Billy Wilder, per non dire di Orson Welles o di Alfred Hitchcock.

Gregory Peck e Brock Peters in “Il buio oltre la siepe”

E in Italia? Quali attori festeggeremo in quest’aprile che li vide nascere? Nancy Brilli, Ezio Greggio e Nicoletta Braschi in Benigni: e ho detto tutto.

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