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Nostalgia della povertà

Blog Tra un indumento nuovo e uno vecchio e logorato, io scelgo quasi sempre di indossare quello vecchio. Leggendo Clarice Lispector, a questa abitudine do un nome: "nostalgia della povertà". Non rimpiango certo la miseria, l'indigenza, ma il valore della “povertà” evangelica dei “mendicanti dello spirito”. Sogno un mondo reso uguale da una gioiosa e sobria austerità

Mia moglie mi rimprovera perché, tra un indumento nuovo e uno vecchio e logorato, io scelgo quasi sempre di indossare quello vecchio. Perché non mi decido ad acquistare vestiti nuovi, perché mi rifugio in un maglione sdrucito, in una camicia con una piccola macchia di caffè. Ma fino ad ora non riuscivo a motivare queste scelte rassicuranti, queste abitudini per me cosi confortevoli. Ora, leggendo Clarice Lispector, grazie a lei do loro un nome: “nostalgia della povertà”.

Non rimpiango certo la povertà come miseria, come indigenza. Piuttosto come valore: come la “povertà” evangelica dei “mendicanti dello spirito”. Come svuotamento di quell’Io imperialistico, vorace e sopraffattore, che ha devastato il pianeta e le coscienze.

Come nostalgia. Nostalgia della mia infanzia e della strettissima economia in cui si viveva, nostalgia dei miei ostinati rifiuti d’un giocattolo che pure desideravo ma temevo costasse sacrifici, nostalgia della gente povera e allegra che abitava tutt’intorno, dell’unica televisione condivisa da tutte le famiglie del palazzo in letizia e convivialità, dei giochi in strada con pezzi di legno e palle di carta, del primo vestito “da uomo” ritagliato dal vestito buono del fratello di mia nonna, delle mie scuole elementari alla pescheria con compagni poveri e perciò già adulti, così seri e però così vitali, così diversi dall’iconografia bamboleggiante dell’infanzia.

Forse è per questo che da bambino mi dichiaravo “socialista”, forse è per questo che sogno un mondo reso uguale da una gioiosa e sobria austerità. Forse è per questo che amo gli “abiti smessi” (è una citazione!) e aspiro a una moda francescana: un saio trattenuto da una corda, e sul viso un sorriso mansueto.

“Un paio di scarpe”, opera di Vincet Van Gogh, 1886, Van Gogh Museum, Amsterdam

Sterile nostalgia, la mia, regressiva e anzi reazionaria? Può darsi. Sono nato nel maggio 1949, nei giorni della tragedia del grande Torino. Triste e come avvolta da un’ombra luttuosa, quell’Italia. Le ferite della guerra ancora aperte, la fatica della ricostruzione. E quel sogno dei poveri schiantato a Superga. Un’Italia finalmente unita, dal dolore e da una fragile speranza: unita come non fu prima e non sarà in seguito. E sobria, con un sorriso timido e discreto sui volti dei suoi calciatori che sembravano anziani contadini, dei suoi contadini che sembravano angeli puniti, tenaci e scontrosi veggenti.

Ringrazio Dio di avermi fatto nascere in quell’Italia, in quell’angusto tempio del pudore e della compassione, della fraternità avvertita nella preghiera o cercata nella lotta politica e sociale, in quell’Italia così piccola da stare tutta sotto l’ala di quell’aereo.

Buonismo? Viva il buonismo. Anche ingenuo e sprovveduto, anche se imbastito di frasi già dette, di pensieri tanto logorati da apparire ovvi o obsoleti. Anzi: tanto più se ingenuo, tanto più se scontato. Viva il libro Cuore, viva le canzoncine dello Zecchino d’oro, viva le foto dei gattini su Facebook, viva i consunti breviari di antiche devozioni in mano a vecchiette oranti nelle chiese, viva le preghiere inascoltate delle suore di clausura, viva le maestrine elementari con le loro elementari lezioncine di grammatica e di vita, viva le prime parole assorbite dai bimbi col latte materno, viva l’amore delle madri che è sempre stato e resta l’unico modello credibile, e da perseguire, di un’umanità futura. Se “decrescita” dev’essere, sia spirituale. Sia ritorno al candore dei bambini e dei poeti, dei matti e dei diversi, dei “poveri di spirito”.

Questa la rivoluzione che sogno. E due sole autentiche rivoluzioni intravedo, negli ultimi cent’anni. Non quella russa o cinese e simili, che a un dispotismo ne hanno sostituito un altro, con le sue gerarchie e i suoi eserciti, le sue carceri e le sue polizie, le repressioni liberticide e le sordide censure. Altre due, piuttosto, ancora in corso e ancora lontane dalla vittoria: una è il femminismo, che s’avvia a ridisegnare i ruoli e il rapporto tra i generi, a trasvalutare i valori correnti e a riscrivere l’etica pubblica e privata; l’altra è la migrazione dei popoli poveri e affamati, che non solo vendica secoli di oppressione e sfruttamento, ma mette radicalmente in discussione (e, spero, cancellerà) le polverose e perniciose nozioni di stato e di nazione, di civiltà e progresso.

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