Libri e Fumetti Innamorato della parola scritta, rinato professionalmente a scuola dopo che è svanito il sogno accademico, lo scrittore palermitano è tornato al libro con un giallo edito da Ianieri nella collana Le dalie nere: «La definirei un’avventura nerissima in un candidissimo paese dell’entroterra. A Serrapriola la vita scorre apparentemente nell’innocenza, invece nulla è innocuo». Il 29 novembre la presentazione a Palermo
Nella rete digitale, internet, nello specifico sul social network più famoso, Facebook, può capitare di imbatterci in pagine virtuali che hanno come titolo “Cartoline dall’isola”, una miscellanea continua di immagini e parole che descrivono, nei modi più impensabili, la Sicilia e i suoi arcipelaghi circostanti. La scrittura delle cartoline non è quella veloce, tipica dei social, bensì una attentissima cura vi è data come fossero saggi sull’idea di viaggio, legato al proporre un qualunque elemento della cultura di quel luogo specifico che viene trattato. Michele Burgio, autore di queste cartoline, è anche l’autore di “Mondo è stato” (Ianieri Editore, pp. 214, € 18,00, collana Le Dalie Nere, curata da Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore).
Palermitano, quarantenne, nato nell’anno che l’Italia vinse il Mondiale di Calcio che più viene ricordato, Michele Burgio non è al suo debutto assoluto, anche se durante la chiacchierata che ci ha concesso per l’intervista che segue, ha affermato di sentirsi un esordiente. Laureato in Lettere nel 2005, cultore della tradizione popolare siciliana e studioso di linguistica, Burgio – che si è anche abilitato al ruolo di professore universitario -, ad oggi insegna materie letterarie in un istituto di istruzione statale superiore serale, il “Marco Polo” di Palermo.
È proprio grazie a questa professione, che svolge con amore e dedizione per la parola scritta, interpretata e analizzata al fine di rendere comprensibile il complesso mondo della materia letteraria, che – sono le sue testuali parole – gli «è toccato rinascere».
Perché dice che le è toccato “rinascere”?
«Tecnicamente ho iniziato a pubblicare intorno ai venticinque anni e non ho mai smesso. Dai ventuno ai trentacinque anni mi sono occupato anima e corpo ad un progetto ambizioso, quello di diventare un dialettologo. Per tre lustri mi sono formato accademicamente studiando discipline linguistiche. Dopo la laurea ho vinto una borsa di dottorato, poi vari contratti di ricerca e insegnamento, sino ad approdare ad una abilitazione scientifica nazionale come professore associato. In quegli anni la letteratura era l’amante cospiratrice, quella cui dedicarsi nei ritagli di tempo che mi restavano tra un lavoro scientifico e un altro. Ne ho pubblicati quasi trentacinque, le cui tematiche spaziavano dall’etnolinguistica all’onomastica. Nel tempo uscirono una mia monografia sulle denominazioni dei dolci rituali siciliani e, quasi in contemporanea, un lavoro divulgativo a più mani sulla storia e la cultura legate alle arance, finanziato da un colosso della produzione. Il mio progetto di perseguire la carriera accademica si è arrestata bruscamente nel 2017 ed è come se la mia vita si fosse d’un tratto interrotta. Ho sofferto molto, ho cambiato ambiente. Ecco perché dico che mi è toccato rinascere».
Dunque la scuola, come rilancio che le ha permesso una visibilità ben oltre ciò che aveva fatto in passato…
«In breve, sono riuscito a strutturarmi nella scuola pubblica, scoprendo un’altra passione, quella dell’insegnamento negli istituti superiori serali. Così ho potuto riprendere in mano la mia attitudine alla scrittura creativa. Nel 2020 in Favi amari ho raccontato la vita di Nonò Salamone, il cantastorie di Sutera, uno degli ultimi della generazione di Giovanna Marini, Otello Profazio, Matteo Salvatore. Poi ho pubblicato qualche racconto su riviste online e da un paio d’anni mi diverto sulla mia pagina Facebook a compilare quelle che ho voluto chiamare “Cartoline dall’isola”, una sorta di riflessione intimista trasfigurata attraverso miei scatti fotografici. Ma scrivo molto, direi tutte le mattine, e nel cassetto ho numerosi altri romanzi».
Arriviamo a “Mondo è stato”. Seppur lei si reputa un esordiente, certo che nell’editoria indipendente è entrato dalla porta principale: la collana Le Dalie nere dell’Editore Ianieri, curata da due out-sider quali Raffaella Catalano e Giacomo Cacciatore, l’ha scelta come ottavo titolo. Non è per nulla cosa da poco, conoscendo il lavoro certosino del team editoriale. Ne ha consapevolezza e come vi è arrivato?
«Nella maniera in cui dovrebbe sempre accadere: attraverso il semplice invio della sinossi, del romanzo e di una nota biografica. Andiamo per ordine. Da lettore curioso amo sfogliare tutto ciò che mi capita sottomano, a maggior ragione se non ne conosco l’autore. Non ho pregiudizi di sorta, anzi sono incuriosito dagli editori minori e dalle piccole collane, potenzialmente in grado di operare un’attenta selezione. Notai in libreria il giallo “Tre” di Carlo Barbieri, edito proprio all’interno de Le dalie nere. Mi incuriosì e lo acquistai. Ovviamente lo apprezzai, Barbieri è un maestro del genere. Fu però leggendo “La strantuliata” di Fabrizio Escheri che capii due cose: la prima era che la collana non conteneva soltanto gialli classici ma apriva le porte alla sperimentazione; la seconda era che non poteva essere un caso che due romanzi su due avessero quel livello di scrittura, voleva dire che era proprio la collana ad essere ben costruita. Da qualche mese avevo finito di scrivere quello che divenne “Mondo è stato” e provai a contattare tramite Facebook Raffaella Catalano, che non conoscevo. Lei e Giacomo Cacciatore si sono detti disponibili a leggermi. È piaciuto. Siamo qua».
Con parole sue, per i lettori: come descriverebbe o spiegherebbe in breve il suo romanzo per invogliare a leggerlo?
«“Mondo è stato” è un romanzo che si legge con il sorriso sulle labbra e l’inquietudine nel cuore. La definirei un’avventura nerissima in un candidissimo paese dell’entroterra. A Serrapriola la vita scorre apparentemente nell’innocenza, invece nulla è innocuo. Tutti vivono una vita pubblica che contrasta con ciò cui ambiscono in privato, perseguendo il bieco interesse personale. Detto questo, spiegare un giallo è difficile, perché si rischia sempre di dire troppo».
Cosa l’ha spinta a trattare l’argomento mafie nel suo stile particolare, e con un ambientazione percettiva, come l’ha definito “con il sorriso sulla labbra e l’inquietudine nel cuore”?
«In realtà il romanzo non tratta un argomento specifico o, meglio, bisogna leggerlo tra le righe. Non sono di per sé né il disagio giovanile, né la chiesa, né il giornalismo, né la mafia a interessami. Sono tutte queste cose insieme, tanto più quando si mescolano. Quello che mi ha spinto ad architettare la vicenda nel modo che i lettori vedranno, riguarda ciò che è sempre sottinteso nella mia scrittura, ed è l’analisi dei rapporti di potere e tra i poteri».
È vero, come lo è anche il fatto che i personaggi chiave, quali Luca in primis e un altro dei ragazzi appartenenti al gruppo, definiti “I megli”, hanno un segreto in comune, il rischio di una condanna di mafia che non ci pensa due volte a decretare il verdetto sterminatore. Tra l’altro vi è il coinvolgimento mafioso-filiale con uno dei due.
«La vicenda si basa su più focus che si intersecano, come spesso accade nella realtà. L’idea di base era quella di raccontare una comunità di provincia, con le sue dinamiche di rilassatezza, abbandono, ipocrisia. Trattandosi di un giallo, a maggior ragione le rose hanno finito per essere meno delle spine».
Perché ha scelto il genere giallo-noir per la sua rinascita?
«Devo essere sincero? Ho scritto un giallo per… divertirmi. Mi stavo rompendo la testa su ‘U tortu (un romanzo storico inedito segnalato all’ultima edizione del Premio Calvino, ndr), terminato da più di un anno e che non riuscivo in nessun modo a pubblicare. Difficilissimo riuscire a farsi leggere dalle grandi case editrici e chi tra i lettori specializzati lo leggeva mi diceva “è vera letteratura, è un’opera interessantissima”, ma poi la cosa finiva lì. Qualcuno suggeriva: “I libri troppo lunghi fanno fatica a emergere, soprattutto se sono scritti da esordienti, e poi il romanzo storico per adesso non va per la maggiore. Perché non scrivi una bella saga familiare o un giallo?”. E perché no?, mi sono risposto, ma purché non sia un giallo al ribasso: niente ammiccamenti da carretto siciliano, niente hard-boiled triti e ritriti, niente emozioni un tanto al chilo. Così è nato “Mondo è stato”».
Dunque appetibile a più fazioni di lettori…
«Ho pensato a un pubblico trasversale, ma avvezzo ad un certo tipo di scrittura. Non credo assolutamente che il lettore vada sfidato con arroganza, ma neanche compiaciuto – e raggirato – con moine carezzevoli da ecumenismo spicciolo o effetti speciali finto-sperimentali che fanno così tanto giovane intellettuale iconoclasta. Diciamo che il pubblico che vorrei raggiungere è quello che si sente a proprio agio in un’onesta trattoria di quartiere».
Cosa si aspetta da questo romanzo?
«In sincerità? Assolutamente niente. Se ragionassi già in termini di chissà cosa, vorrebbe dire che in tutti questi anni non imparato nulla. Io spero, con tutto il cuore, che “Mondo è stato” possa arrivare a più occhi possibili, che quanti più lettori possano iniziare a leggerlo. Poi, sono certo che a Serrapriola si troveranno bene. Non riesco a guardare oltre, già questo per me sarebbe tantissimo».
Le probabilità ci sono: è pessimista dunque?
«Forse un po’, ma preferisco definire il mio atteggiamento improntato a un concreto realismo. Nella mia non lunghissima ma articolata esperienza di vita e di lavoro, ho imparato che si lavora per sé stessi, giorno dopo giorno, e si lavora per il piacere di farlo. Si costruisce per il piacere di ammirare l’opera compiuta e per cercare di capire come se ne può costruire una migliore. Alla fine non è frustrante, è divertente, è il motore dell’esistenza.»
La scrittura fino a che punto può davvero essere un’arma culturale per abbattere tutte le tematiche che tratta, quelle negative ovviamente?
«La scrittura è senz’altro uno degli strumenti per comprendere le mafie ad esempio; più avvincente ma forse utopistica è l’idea di considerarla un’arma per combatterle. Nel passato, in una società più matura come quella degli anni Sessanta e Settanta, gli scrittori hanno potuto giocare un ruolo sociale se non decisivo, quantomeno incisivo. Nel panorama culturale odierno credo invece che questo ruolo sia assolutamente neutralizzato, e non solo per ciò che gli riguarda gli autori di narrativa. I lettori di romanzi sono pochissimi, e quei pochi appartengono generalmente a quella fetta di persone che, nel bene o nel male, hanno già assunto una posizione a riguardo. Ci vorrebbe un ritorno alla letteratura come interesse nazionale, alla lettura come abitudine diffusa e trasversale, per immaginare un dibattito culturale che possa poi essere incisivo nella vita quotidiana di più ampie fasce di popolazione. Ma ciò mi pare distante anni luce, non vedo speranza in un futuro prossimo. E la responsabilità, sia chiaro, non è dei lettori e neanche degli scrittori, ma di chi regge le fila del mercato culturale».
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Il libro sarà presentato martedì 29 novembre, alle ore 17.30, alla Libreria Spazio Cultura, Palermo. Dialogherà con l’autore Alessandro Buttitta.
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