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L’amore è volato via come un angelo deluso

Blog Una volta il vero seduttore era disinteressato come un artista, gli bastava scorgere sul viso della fanciulla conquistata l’affiorare di un “rossore”, come prova del suo successo. Con la rivoluzione culturale della fine degli Anni 60 il demone perfido del “disincantamento del mondo” si è radicato nel linguaggio. E oggi non si fa l'amore ma si scopa, lemma da operatori ecologici che rispecchia uno stile, un’avvilente ginnastica devitalizzata e predatoria

Un tempo si diceva: “fare l’amore”, o “fare all’amore”. E già quel materialistico “fare” era sgradevole, anche se riscattato dall’“amore”, oggi latitante dopo millenni di imperiosa egemonia.

Anzi: prima ancora non si diceva affatto. Perché non si “faceva”. La nostra coetanea Gigliola Cinquetti era stata perentoria: “non ho l’età per amare”. E nemmeno, figuriamoci, “per uscire sola con te”. E perfino la bellissima francesina Françoise Hardy, di cui eravamo innamorati, se ne andava “seule par les rues, l’âme en peine”, ignorata da “tous les garçons et le filles” (soprattutto dai “garçons”). Amore e sessualità erano drasticamente disgiunti, ci si innamorava degli occhi di ragazzine acqua-e-sapone (il mito, almeno il mio, era l’eterea Audrey Hepburn), senza forme procaci ma con occhi luminosi, e ci si tormentava a lungo prima di farle la “dichiarazione” (alla quale, dopo un rituale “non sono pronta”, seguiva l’altrettanto lunga attesa di un responso). E come scorgere il sospirato assenso? “Da una lacrima sul viso”.

Il vero seduttore, disinteressato come un artista? Herr Cazotte della bellissima novella Ehrengard di Karen Blixen, al quale bastava scorgere sul viso della fanciulla conquistata l’affiorare di un “rossore”, come prova del suo successo; ma poi gli toccava, da gran signore e da puro esteta, scappare, non approfittarne, serbare con gratitudine quel roseo emblema.

“Quel dolce rossore che sale al viso”, stampa su tela di Maximilian Wagner

Esempi inarrivabili, letterarie chimere. Tanto più che venne poi il tempo di “farlo” davvero, l’amore, sull’onda della rivoluzione culturale (e generazionale) dei tardi anni Sessanta. Con trepidazione, con maldestra impetuosità, e magari nelle strettoie della Cinquecento comprata coi soldi del primo “presalario” largito dall’ateneo. O nelle aule dell’università occupata. Amori strozzati ma appassionati, coinvolgenti anime e corpi. Ma il “disincantamento del mondo”, un demone più perfido dei fascisti alle porte, scavava intanto come una talpa: dove? Nel linguaggio, appunto, avamposto di tutti i mutamenti epocali.

Un esempio? 1967, alla terza liceo mia madre, progressista e scientista, m’impose di sottoporre la mia scelta della facoltà universitaria ai test d’uno psicologo: finiti i quali il colloquio con l’esperto pervenne al tema della sessualità (maledetto Sigmund!). Di fronte alla evasività delle mie risposte, lo psicologo proruppe indispettito: “Ma insomma, ti capita o no di scopare?”. Scopare? Giuro: era la prima volta che sentivo quella parola, del resto ancora poco frequente. Scopare? Pensavo all’arnese maneggiato con maestria da mia made e mia nonna, alle pulizie di casa, a qualche mia inadempienza da figlio unico per nulla avvezzo ai lavori domestici. E il mio silenzio finì con l’imbestialire il mio interlocutore: che m’iscrivessi pure a Lettere, rifugio degli imbelli!

La rivoluzione sessuale degli Anni 60

Odio quel verbo, lo trovo ripugnante, oltre che volgare e sessista. Secoli di lirica classica, provenzale, stilnovista, petrarchista, e tesori di cristiana agape, ma soprattutto una valanga di emozioni e trasalimenti, di estasi e passioni, da ramazzare nella polvere e consegnare all’immondizia! Molti anni dopo, vedendo l’ultimo Kubrick, Eyes Wide Shut, già a mio avviso malriuscito e non per colpa dell’autore frattanto defunto, rimasi basito al cospetto dell’orribile conclusione: Nicole Kidman e il suo “Scopiamo”, sgraziato e importuno come un sonoro rutto nel pieno dell’esecuzione d’un Notturno di Chopin.

La talpa del disincantamento era ormai venuta alla luce. Nella vasta area semantica associata al miracoloso congiungersi dei corpi, fra gli estremi del bello e casto “giacere con” biblico e dell’orripilante “ficcare” di Camilleri, fortunatamente inesistente se non nella sessista Vigata (allora meglio il “futtiri” di Micio Tempio, saporoso, vivo nel parlato, nonché ricco d’implicazioni metaforiche!), s’è imposto quel lemma da operatori ecologici; e ha imposto o rispecchiato uno stile, una pratica, un’avvilente ginnastica devitalizzata e predatoria. Dal “trombamico” delle giovani generazioni ai tanti film in cui l’amplesso pare un furioso match di wrestling, l’amore è volato via come un angelo deluso.

E trova, purtroppo, finalmente conferma il settecentesco Nicolas de Chamfort: l’amore? Non è – scriveva – che “l’epilessia di qualche minuto”.

“Angel of love”, olio su tela di Leonid Afremev

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