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Io, l’amico Battiato e l’innocua deriva dei ricordi

Opinioni e analisi Alla luce della della notizia della morte di Franco Battiato, ripubblichiamo il blog di Antonio Di Grado "Quando con l’amico Battiato vivevamo una Catania officina di cultura" del 2 novembre 2020: "Dopo tante ansiose domande senza risposta, ci si è come rassegnati al tristissimo silenzio di Battiato. Meglio, allora, abbandonarsi all’innocua deriva dei ricordi"

Alla luce della notizia della morte di Franco Battiato, ripubblichiamo il blog di Antonio Di Grado “Quando con l’amico Battiato vivevamo una Catania officina di cultura” del 2 novembre 2020.

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Oggi voglio tornare a parlare di Franco Battiato: perché, dopo tante ansiose domande senza risposta, or è più di un anno, oggi invece ci si è come rassegnati alla sua assenza, non ci si chiede più se e come si sarebbe potuto guarire il suo tristissimo silenzio.

No, non intendo recriminare, né avanzare sospetti che lui, se potesse, sarebbe il primo a non gradire. Meglio abbandonarsi all’innocua deriva dei ricordi: i capodanni a casa sua, le magnifiche “Estati catanesi” fianco a fianco negli anni ’90, le barzellette e le risate, il set di “Perduto amor”, la granita di ciliege, una sera a Misterbianco che mi propose addirittura… lasciamo perdere: i ricordi sembrano svanire, ma chissà, forse per vie segrete comunicano, interagiscono, raggiungono come per una misteriosa telepatia l’amico nascosto mescolandosi coi suoi, in un comune, cosmico “oceano di silenzio”.

Antonio Di Grado e Franco Battiato

Oggi mi ha visitato al risveglio uno di quei ricordi, di un magico concerto al Teatro Massimo, più di vent’anni fa.

Erano le nove della sera di un venerdì. Teatro gremito, gente festosa, abbracci come se non ci si vedesse da anni. Come se ci si ritrovasse all’uscita da un tunnel. C’era quell’aria di miracolo, di un possibile ricominciamento, di un’ultima chance da affidare alla politica, che dopo quella metà degli anni novanta non abbiamo provato più, che i nostri figli – temo – non proveranno mai.

Poi entra in scena Franco. Attacca sommessamente, con un lied ricavato da un sonetto di Shakespeare. Continua (primo grande applauso, alle prime note: di riconoscimento e riconoscenza, di identificazione e appartenenza) con la magnifica Stranizza d’amuri: un grumo di rimembranze, di odori, di strazianti dolcezze; un alito di calda sensualità, “cu tuttu ca fora c’è ‘a guerra, cu tuttu ca fora si mori”. Dal “vadduni d’a Scammacca” a Jacques Brel, alla splendida Chanson des vieux amants: «Mon doux, mon tendre, mon merveilleux amour, de l’aube claire jusqu’à la fin du jour, je t’aime encore, tu sais, je t’aime…».

E nei versi di Brel c’è già una chiave, per capire il personaggio (e il mito) Battiato: «il faut bien du talent, pour être vieux sans être adultes», occorre del talento, per invecchiare senza diventare adulti. Un epitaffio che vorremmo suggellasse le nostre vite; l’archetipo del puer aeternus, mito di purezza e d’irrequietudine da opporre come un argine alla sordida ipoteca della “maturità”.

E Franco era, è così: un ragazzo freschissimo carico di millenaria saggezza, un carusazzu della riviera jonica innestato in un mistico sufi e in un accademico di Tubinga, un uomo felicemente incline all’aforisma colto e tagliente e alla battuta sarcastica, alla affabulazione arguta e generosa.

Franco Battiato in un’immagine della seconda metà degli Anni 90

È il Battiato che, seduto e assorto, levava quel venerdì sera la sua “lode all’Inviolato” o convogliava alla fine l’entusiasmo sfrenato del pubblico nell’intensa preghiera di E ti vengo a cercare, una delle poche che si possano ancora sillabare con intatta devozione. È il Battiato sornione che, mimando l’onda musicale che ci travolge e ammiccando agli amici in prima fila, snocciola i suoi grandi successi da Cuccuruccuccù a Prospettiva Nevskij (ricordate “la grazia innaturale di Nijinskij”? certo, come pure: “il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire”) e a La cura (la più bella canzone d’amore degli ultimi decenni). È, infine, il Battiato che improvvisamente si scatena lasciandosi (e lasciandoci) travolgere da vibranti sonorità rock.

Il cambiamento di registro avviene a metà dell’esecuzione di Sesso e castità, il primo dei suoi Dieci stratagemmi: impostata sullo sfondo dell’accompagnamento di archi e piano che fino a quel momento aveva scandito il concerto, la canzone subiva l’improvvisa irruzione d’una orgiastica band di giovani rockettari (non ricordo, ahimé, la sigla), bravi e impertinenti: e da allora il pubblico è stato trascinato in un concerto rock da mozzare il fiato.

Immagine catanese Anni 90 di Franco Battiato ai tempi delle sue Estate catanesi

Emozioni, dunque, e sorprese: alcune davvero imprevedibili e stranianti, altre prevedibili e doverose: come quando, tra un bis e l’altro, Franco quella sera alluse alla politica, alla nostra comune esperienza della “primavera” catanese e all’ignobile degrado che l’aveva preceduta e – purtroppo – la seguì. Aveva appena cantato Povera patria tra applausi convinti e scroscianti, e confessava di ritenerla troppo “politica” per i suoi gusti, che cantarla gli faceva venire l’orticarie, che occorrerebbe tentare di volare più alto. Ma aggiungeva di non potere sottrarsi a quel carico di ricordi, di rimpianti, di sdegno, all’urgenza di quell’allarme.

E davvero il clima di quel venerdì sera era quello delle “Estati catanesi”: della città riconquistata, dei monumenti aperti come officine di cultura e suggestive ribalte, delle profumatissime ventate d’Europa, di Mediterraneo, anzi delle vittoriniane “città del mondo”, che dal 1993 al ’97 attraversarono Catania.

Più che un bel ricordo, dunque: piuttosto un auspicio, un appello, una ostinata speranza. E io a sperare, con lui allora, per lui oggi: perché «le gioie del più profondo affetto / o dei più lievi aneliti del cuore / sono solo l’ombra della luce».

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