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Il Premio Paganini e la musica che apre i cancelli chiusi

Blog Da Catania a Bentivoglio. Questa storia inizia dalla poltrona verde del soggiorno di casa dei miei, quando ho letto sul televideo a pagina 161 la notizia della vittoria, e finisce in un luogo di confine dove assisto, per caso e per destino, a un concerto emozionante ed unico

Fin da quando, seduto sulla poltrona verde del soggiorno di casa dei miei, ho letto sul televideo a pagina 161 la notizia della sua vittoria, ho chiaramente avvertito un bramoso e quasi ineluttabile desiderio di ascoltarlo. Ho subito pensato che sarebbe stato un vero peccato lasciarsi scappare una tale ghiotta occasione. Mi sono detto: appena scende in Sicilia deve essere mio, devo riuscire a vederlo costi quel che costi. Si sa, noi esseri umani non badiamo a spese pur di appagare i nostri desideri. Ricordo nitidamente che me lo sono ripromesso solennemente: non hai scuse, sei obbligato a vederlo suonare! Non ho memoria se queste otto parole le ho dette ad alta voce, ma mentre le dicevo – o le pensavo – ricordo benissimo e rivivo, come se fosse ora, quel sussulto di felicità che ha invaso tutto il mio essere mentre apprendevo della sua vittoria: il Premio Paganini, a 24 anni di distanza, veniva nuovamente assegnato a un italiano. Era autunno, esattamente il 26 ottobre del 2021, quando seduto sulla poltrona verde del soggiorno di casa dei miei ho letto, sul televideo a pagina 161, che il violinista salernitano Giuseppe Gibboni, di appena 20 anni, aveva vinto il prestigioso ed ambitissimo riconoscimento e, come vi dicevo, mentre la mia anima veniva invasa da mille stupende emozioni mi ripromisi, senza possibilità d’appello, che quanto prima avrei assistito ad un suo concerto.

Dovete sapere che, prima di lui, solo tre italiani erano riusciti a spuntarla al concorso. Il primo fu l’immenso Salvatore Accardo, era il 1958 (per dovere di cronaca l’anno prima, nel 1957, Accardo era arrivato secondo ex aequo), poi fu il turno del grande Massimo Quarta, che trionfò nel 1991, e l’ultimo a cui toccò questo riconoscimento fu il virtuoso Giovanni Angeleri, che lo vinse nel 1997. Con le sue 57 edizioni il Concorso internazionale di violino “Premio Paganini” è motivo di vanto italiano e, soprattutto, è il riconoscimento più alto a cui un violinista possa aspirare. Era il 1940 quando la città di Genova ipotizzò di istituirlo decidendo di omaggiare il suo illustre concittadino Niccolò Paganini. Quelli erano anni nefandi per l’Italia e per il mondo intero, forze malvagie stavano portando l’umanità verso l’abisso. Si preferì far suonare le armi anziché la musica, e la relativa scellerata decisione di dichiarare guerra bloccò questa bella iniziativa. Dovettero passare molti anni prima che ci fossero tutti i presupposti per il suo avvio, che avvenne nel 1954, ma sia nella prima che nella seconda edizione non fu assegnato il primo premio: nessuno dei finalisti fu meritevole del titolo. Poi dal 1956, con un ex aequo, la manifestazione iniziò a decretare i suoi vincitori. Con il passare del tempo, edizione dopo edizione, la manifestazione iniziava ad acquistare sempre più consensi e ad imporsi come faro mondiale per tutti i violinisti.
Ma ritorniamo all’inizio, alla promessa che mi feci, quando seduto sulla poltrona verde del soggiorno di casa dei miei lessi, sul televideo a pagina 161, la notizia che il violinista salernitano Giuseppe Gibboni, di appena 20 anni, aveva appena vinto il “Premio Paganini”. A distanza di solo un anno devo ammettere che questo mio impegno era stato quasi del tutto accantonato, diciamo completamente disilluso, dimenticato, sopito, rimpiazzato, disatteso, sfocato… per essere precisi direi quasi del tutto rinnegato. Ho solo ascoltato su Radio3 Rai qualche sua intervista e alcune sue interpretazioni: eccezionali, stupende, nulla da eccepire… ma assistere ad un concerto, converrete con me, è proprio un’altra cosa.

A distanza di oltre un anno, proprio in questi giorni di dicembre, mi trovo per una breve vacanza in quella che io sento come la mia seconda città del cuore, Bologna. Sono ospitato, a turno, nelle case di vari amici, ma è nella abitazione di Matthias che si delineano le trame avvincenti di questa storia. Infatti è in questa casa, in un tardo pomeriggio qualsiasi, mentre siamo in procinto di incasinarci la serata montando un mobile svedese, che Matthias ricorda che il giorno successivo deve andare ad un concerto. Mi invita e mi unisco volentieri, superate le prime ritrosie. Il concerto è fuori città, a Bentivoglio “nella bassa”. I biglietti si posso prenotare solo on line e sono gratuiti. Mentre Matthias smanetta con il telefono nel tentativo di riuscire a recuperare un posto anche per me, comincio ad avere dei dubbi sull’andare o meno, ero quasi lì lì per desistere quando Matthias legge ad alta voce il programma concertistico della serata e i nomi dei due musicisti che avrebbero suonato: «alla chitarra Carlotta Dalia di 23 anni e al violino Giuseppe Gibboni di 21 anni».
Sul momento mi sembrano due illustri sconosciuti, poi come un’eco lontana due parole magiche raggiungono e si insinuano lentamente alle mie orecchie, quasi al rallentatore: “P r e m i o P a g a n i n i”.
Un sussulto mi pervade, inizio a ripetere come un ossesso «Non ci posso credere, è lui! L’ho beccato, non ci posso credere!»
Incredulo, sbigottito, emozionato. Sono in vacanza e nonostante i miei sforzi per tenermi aggiornato sull’attività culturale bolognese, di questo evento non avevo trovato traccia. Penso che sono fortunato, fortunatissimo, e pregusto il regalo stupendo che mi sta per fare questa fantastica città. Finalmente realizzo il sogno espresso mentre ero seduto sulla poltrona verde del soggiorno dei miei. Un attimo. L’euforia è durata giusto un attimo, il tempo di farmi assalire da un’ondata di pessimismo: trovare i biglietti sarà un’impresa titanica!

Giuseppe Gibboni e Carlotta Dalia

Non è immaginabile procurarsi un biglietto per un evento di tale portata a meno di 24 ore dal suo inizio. Se la cosa è realizzabile è solo perché c’è un imbroglio, e poi l’iniziativa è pure gratis! Mestamente sentenzio che i biglietti nel giro di poche ore saranno già andati a ruba… non faccio a tempo a mettere in ordine le mie disordinate elucubrazioni mentali che una e-mail mi conferma la prenotazione: riuscirò ad assistere al concerto (non ci posso credere!).
Felice ed euforico, mi sintonizzo in modalità “concerto” ma, nonostante tutto, intimamente rimango abbastanza incredulo: qualcosa non mi convince, sento puzza di truffa.
Arriva il pomeriggio della domenica, sono eccitatissimo. Con Matthias e due suoi amici ci dirigiamo in macchina verso Bentivoglio.
In auto siamo quattro (come nella barzelletta); un tedesco, Matthias appunto; una pugliese, Sara, (colei che ha scovato l’evento su un social); un napoletano, Corrado, proprietario della macchina; e un siciliano, ovvero io. Piove, l’imbrunire avanza, lasciamo la città e la pianura, attraversiamo spazi molto affascinanti ma desolati: un casolare qua e uno là… più ci addentriamo, più i segni evidenti dell’urbanizzazione spariscono attorno a noi.
Arriviamo puntuali e riusciamo lasciare la macchina nel parcheggio interno alla struttura che ospiterà il concerto: il Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio. Le poche macchine parcheggiate dentro le aree di sosta mi riaccendono il dubbio che sia tutto un bluff. Le mie perplessità aumentano all’ingresso: il museo – bello, ben fatto, molto interessante per i suoi contenuti – non è uno spazio concepito per fare musica. Già dalle vetrate gigantesche che ne delimitano il perimetro è palese che non è un luogo adatto ad ospitare eventi sonori.

Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio

Il concerto si terrà nella sala più grande, fortunatamente dotata di un tetto in legno, ma concavo, (che non è proprio il massimo per l’acustica). E anche l’illuminazione è squallida, fa pensare a quella di un centro commerciale. Il palco non c’è, ma ci sono sedie disposte a semicerchio, e a terra, ben in vista, varie prolunghe elettriche domestiche, dove ci sono collegati quattro spot led che illuminano i reperti dall’antica cultura contadina: una stupenda locomotiva a vapore, una macchina enorme per la trebbiatura del grano, vari utensili agricoli, forconi, zappe, pialle, cesti e chi più ne ha più ne metta. Mi soffermo nella zona dedicata ai “cufini” e penso al mio bisnonno, il poeta Ciccio Manna, che ha campato una famiglia di cinque figli intrecciando piante per realizzare ceste.
Sono ancora incredulo, ma si spengono le luci. Ci siamo, mi metto comodo. Il pubblico c’è ma non è tutto esaurito, e molti sono pure bambini. Il presentatore della serata è molto informale e anche gli attimi che precedono l’esibizione sono un po’ strani: il leggio del violinista è troppo basso, e seguono piccolissimi attimi di imbarazzo prima di riuscire a portarlo all’altezza giusta. Finalmente inizia il concerto e bastano tre, forse quattro note, per destrutturare lo spazio.

Potevamo essere ovunque, tipo “Matrix”, restano solo il violino e la chitarra, la musica copre e circonda ogni cosa. Dal secondo pezzo scompare del tutto anche la lievissima discrepanza tra il suono del violino, per indole superiore, e quello della chitarra. Questi due musicisti sono sconvolgenti. In vita mia non ho mai sentito un livello d’intonazione così alta e una capacità interpretativa così sciolta: sono incredulo, sbalordito. Dopo un capriccio di Paganini, eseguito impeccabilmente solo dal violinista, è il turno della chitarrista. Ci vuole molto coraggio ad esibirsi dopo un assolo di quel livello. Ho appena il tempo di bisbigliare nell’orecchio di Matthias (che ho dimenticato di dire che è un musicista professionista, chitarrista e compositore), che non vorrei essere nei panni dalla chitarrista, che inizia il “Capricho árabe ” di Francisco Tárrega.

Una totale goduria: un’esecuzione più lenta rispetto alle più diffuse, in cui si gode ogni singola nota… che sono tantissime, ma senza compiacimento. Il silenzio tra una nota e l’altra è pura magnificenza. Il concerto continua senza mai scendere di un solo millimetro d’intensità, anzi, piuttosto l’atmosfera diventa inebriante. E’ un’esecuzione spiazzante. I due musicisti, di rara bravura, non si risparmiano concedendo al pubblico più di un bis. Ed è lì, proprio nell’ultima esecuzione che viene fuori tutta la maturità dei concertisti, nonostante la loro giovane età: anziché proporre un pezzo virtuosistico di più facile apprezzamento salutano il pubblico con un pezzo di Paganini dolce, lento, lirico e soprattutto con una nota armonica finale che spacca l’anima.

In cuor mio l’ho sempre saputo, e a fine concerto ne ho la certezza: anche gli applausi più scroscianti dopo un’esibizione di questo livello risultano banali. Un concerto sublime e anche eccessivamente emozionante: ne siamo usciti sconvolti, quasi intontiti, certamente non gli stessi di prima.
Giuseppe Gibboni suona uno Stradivari, strumento dalla potenza espressiva imbarazzante: un gioiello di inestimabile valore che, se ben suonato, riesce a sprigionare timbri espressivi poderosi. È come se cinque, sei, sette violini di ottima fattura, fossero contenuti in uno solo.
Per dirla con Sorrentino nel film “È stata la mano di Dio”: se questi ragazzi “non si disuniscono” hanno tutte le carte in regola per donare all’umanità sonorità ancora mai espresse.

Andiamo via dal concerto con le ali sotto i piedi. Fuori continua a piovere. Ci dirigiamo verso l’unico bar nei paraggi. E mentre continuiamo ad argomentare sulle fortissime emozioni provate Sara, la ragazza pugliese, continua a ripetere che sarebbe meglio prendere la macchina. Le sue parole si perdono nell’euforia generale, la sua voce non fa breccia e continuiamo a dissertare sul concerto, a disquisire sulla delicatezza e potenza di quanto ascoltato. Trascorre un’altra mezz’ora, forse quaranta minuti, ma non di più, andiamo via. All’uscita dal bar ci rendiamo conto di trovarci in un luogo allucinante, siamo nell’unico esercizio commerciale nel raggio di chilometri. Un posto di confine, dove abbiamo il tempo di gustare un ponce caldo e decantare quello che abbiamo appena ascoltato.

Tutti concordiamo che abbiamo assistito a qualcosa di inenarrabile per la sua qualità e bellezza. Alla chiacchierata si è unita anche una coppia che ha assistito allo stesso concerto, e grazie a loro scopro particolari molto interessanti, come ad esempio che per l’inagibilità del Castello di Bentivoglio il concerto si è tenuto al Museo, e che in passato questa stessa rassegna musicale ha avuto un livello artistico ancora più eccelso. E mi sciorinano un elenco di nomi illustri a cui inizialmente stento credere, ma dopo penso al concerto che appena visto, e prendo tutto per oro colato. Salutiamo e ci dirigiamo verso la macchina di Corrado. Adesso piove anche un po’ più forte di prima e fa anche freddo. Un cancello chiuso con il lucchetto ci sbarra la strada, il parcheggio è chiuso e la macchina irrecuperabile. Vani tutti i nostri tentativi di contattare custodi e vario personale organizzativo. Siamo ancora appagati dal concerto, ma siamo anche nel nulla cosmico “della bassa”. Grazie all’estrema (e impagabile) gentilezza della coppia incontrata al bar che si è offerta di riaccompagnarci in macchina fino in città, siamo riusciti a rincasare. Gentilezza soprattutto della signora, di origini ragusane, che siccome sei in macchina non ci stavamo, ha volontariamente trascorsa una buona ora seduta al bar da sola, in attesa che il compagno ci lasciasse e la recuperasse. La macchina di Corrado verrà recuperata solo l’indomani.

Oltre al piacere di condividere con voi il concerto più bello che ho mai ascoltato in vita mia, ho scritto questo racconto anche per alcune riflessioni che mi ha suscitato.
1- Bisogna mantenere sempre le promesse fatte a se stessi.
2- In Italia se devi prenotare un ingresso a pagamento per la presentazione di un paio di scarpe griffate, magari sponsorizzate da una nota influencer, devi pensarci almeno sei mesi prima, e non è detto che tu riesca ad essere tra gli “eletti”. Invece, se vuoi prenotare il biglietto per il concerto di un grande violinista…
3- Bisogna sempre, e sottolineo sempre, ascoltare le donne.

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