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Il baule di Danae

Blog La signora, che aveva il talento di creare storie fantastiche, amava scherzare con i due rigattieri che ogni volta le chiedevano di abbinare una storia ad un oggetto o mobile arrivato in negozio. Questa volta le chiesero di  un baule da corredo malconcio ma dalla linea bellissima. Sfiorandolo con le dita di una mano, ella disse: «Ma è il baule di Danae!». I due rigattieri si guardarono stupiti! Loro non conoscevano nessuna Danae

Nonostante lo stillicidio del quotidiano segnasse sul volto della signora i guasti del tempo, lo sguardo dei suoi occhi manteneva la stessa intensità di quando era giovane e questo  voleva dire che  non era ancora del tutto stanca della vita. La consapevolezza dell’età piuttosto rivelava uno stupore quasi infantile, un’attenzione affinata ai dettagli di ogni cosa. Le sue regole si squinternavano nel disordine del dormire, del mangiare, nello stretto setaccio di cosa fare e chi vedere, lontano da ogni condizionamento, da ogni progettualità. Nessuno si offendeva dei suoi no, del suo sottrarsi agli inviti per feste, nascite, matrimoni.

Vincent Van Gogh “La lettrice di romanzi”

Molti libri, tanta musica, pochi amici, rarissimi programmi televisivi. Le piaceva la notte, la sua notte siciliana, che le restituiva all’olfatto la fragranza  misteriosa dell’isola e  placava, col  sonno degli altri, la sua mente, regalandole momenti di prezioso silenzio. Di giorno, per sgranchirsi, passeggiava spingendosi fin al centro città, dove c’erano diversi negozietti dell’usato. I proprietari di questi ormai la conoscevano e l’accoglievano tra l’odore di muffa e la confusione  di suppellettili ammonticchiate ovunque. La signora, che aveva il talento di creare storie fantastiche, amava scherzare con i due uomini che ogni volta le chiedevano di abbinare una storia ad un oggetto o ad un mobile arrivato in negozio. Questa volta le chiesero di  un baule da corredo abbastanza malconcio ma dalla linea bellissima. Sfiorandolo con le dita di una mano, ella disse: «Ma è il baule di Danae!». I due rigattieri, promossi dalla loro insegna ad antiquari, si guardarono stupiti! Loro non conoscevano nessuna Danae.

La signora, socchiudendo  gli occhi, cominciò a raccontare: “C’era una volta un re, di nome Acrisio, che regnava sulla città di Argo, famosa per le centinaia di torri d’oro. Regnava infelice perché non avrebbe mai potuto avere eredi maschi, infatti l’oracolo di corte gli aveva profetizzato che avrebbe regnato nella pace e nel buon governo fino a quando non fosse morto per mano di un nipote diretto. Acrisio, terrorizzato, decise di far rinchiudere la sua unica  e bellissima figlia Danae nella torre più alta del suo reame in modo che non potesse in alcun modo concepire. Ma la bella Danae era troppo seducente per non attirare il desiderio di un dio e Zeus, una notte scura, trasformatosi in pioggia d’oro, bagnandola la fecondò  nella solitudine di una cella inutilmente protetta.

Gustav Klimt: la Danae, dipinta fra il 1907 e il 1908

Acrisio scopre l’esistenza di Perseo e ripudia Danae, olio su tela di Stefano Tofanelli

Danae divenne madre di un figlio ma, a conoscenza del terribile vaticinio, lo crebbe con nascosto amore. Un giorno, il bambino si punse ed il pianto riecheggiò prima tra le severe mura dei torrioni e poi scelleratamente, di bocca in bocca, fino all’orecchio di Acrisio  che, veloce come il vento, raggiunse la torre e irruppe nella prigione per ucciderli. Davanti alla sgomenta rassegnazione della figlia, davanti agli occhi del piccolo, che così tanto somigliavano ai suoi,  non fu capace di perpetrare direttamente l’omicidio ed allora diede ordini che fossero racchiusi dentro una cassa, lasciata su una barca al largo della costa. La barca alla deriva viaggiò senza meta fino a quando, sballottata dai flutti, si arenò in una insenatura”.

Il lamento di Danae di Simonide di Ceo, frammento

Probabilmente la cassa era quella lì, che stava davanti a loro, con i medaglioni decorativi, parzialmente distrutti dal tempo. Invece di chiedersi come fosse possibile che quel baule fosse arrivato da un tempo mitologico al loro piccolo negozio, al centro di Palermo, ansiosi le domandarono: «Ma signora, come erano sopravvissuti tutti questi giorni e dove erano approdati?».

Danae a Serifo, di J.W. Waterhouse, 1892

“Erano arrivati su un’isola delle Cicladi dove regnava Polidette il quale, nonostante l’aspetto sciupato dei naufraghi, colse subito l’avvenenza di Danae. Furono subito accolti e rifocillati ed il cuore del tiranno si sciolse davanti alla raffinata Danae, che mai ricambiò le attenzioni di lui. Indispettito, il potente decise di allontanare il ragazzo affidandogli un’impresa impossibile: l’uccisione della Medusa nelle terre inospitali degli Iperborei dove lo sguardo delle Gorgoni pietrificava qualunque cosa e rendeva impossibile il ritorno ai mortali”.

La signora interruppe il racconto e i due cominciarono a reclamare la fine della storia: «Ve lo dirò la prossima volta: posso solo anticipare che il bambino si chiamava Perseo ed, essendo figlio del potente Zeus, era astuto come il padre e protetto da altri dei». «Ma signora abbiamo tutto il tempo per sentire la fine» replicarono i due rigattieri. «No – disse lei – le storie difficili vanno raccontate a piccole dosi».

Uscita tra le proteste dei due, al vicino mercato prese qualcosa e si avviò verso casa. Giunta nell’androne del palazzo,  il portiere le si fece incontro porgendole  una lettera: «Signora Danae, per lei…». «Ah… è la lettera di mio figlio!» replicò la donna al portiere: «Eh… signora, che figlio importante ha lei, deve esserne fiera!». «Lo sono infatti», disse mentre saliva stringendo a sé quei fogli che avrebbe letto e riletto per giorni. Avevano stabilito, lei e il figlio, che, almeno una volta l’anno, avrebbero comunicato per iscritto, come alternativa alla loro continua corrispondenza e-mail.  I caratteri, vergati su carta con la propria grafia, forse erano lo specchio di una modalità di comunicazione passata, obsoleta, ma tenere tra le mani quella carta, che era stata prima fra le mani dell’altro, diventava un messaggio d’amore che li riavvicinava in un comune respiro. Quel figlio, nato da un padre importante ma del tutto assente, era stato costretto, come un moderno Perseo, ad affrontare le meduse dei tempi attuali. Partito per un master di pochi mesi all’estero, non era più tornato.  Le difficoltà iniziali per sostenersi economicamente, la complessità di una lingua estranea, l’inserimento in una società comunque chiusa agli stranieri lo ostinarono allo studio e poi al successo. Ma la corazza di protezione si scioglieva quando scriveva alla madre: nei tratti grafici, seppure impressi con  fermezza e sicurezza,  ella  intuiva gli stati d’animo,  coglieva le fugaci  tristezze o l’esaltazione del successo professionale.

La lettera scritta ancora una volta portava l’odore del figlio, ma, cosa ancora più importante, veicolava l’oltre, il detto, l’oltre, lo scritto, e diventava il laccio miracoloso  che si stendeva, a distanza di migliaia di chilometri, robusto come un cavo d’acciaio resistente, incorruttibile, completo come un codice Morse e vigoroso e nutriente  come un vaso sanguigno fetale.

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