Libri e Fumetti "La sperta e la babba" (Caffèorchidea), esordio letterario dello storico dell'arte e docente palermitana, si districa in un doppio binario di narrazione siciliana tra la fine dell‘800 e la fine Anni ’80 del secolo scorso. L'autrice: «Questo libro, che parla delle vicende della mia famiglia, nasce dall’oralità, il cunto per come poteva essere raccontato». Il 19 settembre aprirà la V edizione di "Etnabook" festival internazionale del libro e della cultura di Catania
«“La sperta e la babba” nasce dal grande dolore provato per la perdita di mia madre ma al contempo per il tentativo di salvare quella sua lingua fatta di idiomi, proverbi e parole siciliane che non si usano più». Uscito a giugno, il romanzo della palermitana Giovanna Di Marco (Caffèorchidea, pp. 186 , € 18,00) si districa in un doppio binario di narrazione contraddistinguendo due epoche diverse: la fine ‘800 e la fine Anni ’80 del secolo scorso. Ciò che lega i due momenti storici è contrassegnato dal coraggio di questa brava scrittrice, storico dell’Arte e docente di Lettere, che si è scommessa trattando temi di rilievo con riferimenti a personaggi di spessore, quali Gesualdo Bufalino.
Proprio Bufalino comincia così il suo “Cento Sicilie”: “Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui tutto è dispari, mischiato, cangiante, come nel più ibrido dei continenti”. E continuando, fra le tante contraddizioni, osserva: “Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode“.
Scritto narrando di Lucia e Concetta, due donne che mai si conosceranno, con “La sperta e la babba” si va alla ricerca di chi possa essere la “sperta” e chi la “babba”, proprio come recita il titolo. In proposito ci siamo fatti raccontare dalla stessa Di Marco chi sono e come e chi è stato l’input di decisione di scrivere questo bel romanzo.
In un contesto distante oltre cento anni come è riuscita a immaginarli?
«Per calarle in una realtà che fosse credibile, ho dovuto adottare la possibilità della fiction. Una fiction relativa, perché nata da vita vissuta anche se da altri. Ho avuto la fortuna di ereditare un enorme patrimonio immateriale. Quando si parla di patrimonio materiale, anche per la giurisdizione dei Beni culturali, lo si distingue da quello immateriale. Ecco, bene, credo che ogni siciliano lo possegga, questo immenso patrimonio immateriale, ma non ha sempre la fortuna di trovarsi a vivere per lungo tempo con persone che hanno vissuto la maggior parte degli avvenimenti della storia del Novecento. Io questa fortuna ce l’ho avuta».
Ciò non toglie che lei esordisce e scuote molto la critica ma anche gli ambienti fedelmente riprodotti: come vi è riuscita?
«Diverse persone mi hanno detto che io ho saputo descrivere alla perfezione persone che non ho mai incontrato e luoghi che non avrei mai potuto vedere (in quanto andati distrutti). Ma di questo credo che il merito non sia mio, quanto di coloro i quali me li hanno saputi raccontare».
Dunque una fiction dove persone e luoghi in parte sono esistiti?
«Rievocare i ricordi di altri, raccontarli per come me li raccontavano, mi ha indirizzato verso un paradosso: il dolore recente mi stava portando alla scrittura ma quello che stavo raccontando lo vedevo e lo conoscevo da una vita. Mi ci sono esercitata inconsapevolmente guardando per anni e anni tantissime fotografie. Ho studiato, senza che me ne accorgessi, pose, acconciature, tagli di abiti, scarpe. E ho visto com’era la Sicilia, com’era Palermo prima dello scempio del suo Sacco, e, ancora, andando indietro nel tempo, com’era Palermo prima che le bombe la sventrassero».
Oltre al gran dolore per il lutto: “La sperta e la babba” come si perpetua?
«Dopo avere finito il primo racconto e avere tirato fuori i momenti fondamentali della vita di un ramo della mia famiglia, mi sono chiesta: «Ma io chi sono?». Ho avuto allora il bisogno di occuparmi dell’altro ramo, per indagare chi fossi. E sono emerse due realtà totalmente differenti».
Il suo è un romanzo di narrativa “non pura”, che scuote molto dato l’idea innovativa presentata anche stilisticamente: ne conviene?
«Credo che si tratti di un libro ambivalente: da una parte è anacronistico (per i temi, i tempi, i luoghi e le storie che vengono narrate), ma da un’altra parte è sperimentale: si tratta di due racconti completamente diversi già a partire dalla lingua. E la lingua riflette la loro stessa consistenza, la loro stessa ontologia. Da una parte infatti è ardita, popolare, viscerale e sanguigna, lì dove trionfano gli aspetti materiali (senza che ci sia nessun credo a parte quello di vivere e migliorare la propria vita, qualunque senso abbia essa stessa); dall’altra non ha accenno di dialetto se non per qualche parola degli albanesi di Sicilia, perché il miglioramento della vita è votato all’obiettivo della pace e della giustizia sociale».
Una particolarità inversa è la storia di un personaggio che lei rivaluta dopo averlo incontrato in Pirandello. Trattasi di Nicola Barbato, che mai viene chiamato con il suo nome: perché?
«Ho preferito identificarlo come il medico socialista che cura anche le anime della povera gente, non solo i corpi. Nicola Barbato, di etnia albanese, fu uno dei promotori dei Fasci siciliani dei lavoratori. Da un sasso di Portella della ginestra faceva i suoi discorsi. La gente, in virtù di quei gloriosi tempi (i Fasci siciliani furono repressi da Francesco Crispi, per ironia della sorte anche lui albanese di Sicilia), continuava a riunirsi in quello stesso luogo ogni Primo Maggio anche nei decenni successivi (anche durante il Fascismo, ci dicono le fonti). E proprio lì avvenne la strage del 1947, la prima strage della nostra neonata Repubblica. Pirandello era già morto all’epoca e chissà come avrebbe interpretato questo tragico evento storico. Di sicuro sbeffeggiò il medico Nicola Barbato ne “I vecchi e i giovani”. Io ho voluto invece esaltarlo e raccontarlo dal punto di vista di una giovane contadina, che, per tutta la sua lunga vita, vivrà di quel mito, nonostante fossero sopraggiunti la caduta degli ideali del passato e il disincanto, Nicola Barbato rimane per lei un esempio di levatura morale incontestabile».
Giovanna Di Marco, ma lei da che parte sta, per la “sperta” o per la “babba”?
«Io sono per la babba tutta la vita, a discapito della sperta e della spirtizza. Voglio essere babba, rimanere tale per sempre. Riesco a essere sperta soltanto quando intercetto le macchiette umane, i tic, le ossessioni delle personalità che incontro. Sarà questo dunque il mio tic, la mia ossessione? Questo lavoro però non lo compio solo sugli altri: lo inizio da me stessa».
Le anime dei personaggi del romanzo sembrano prendere vita anche nella copertina: chi l’ha realizzata e cosa ne pensa?
«La copertina è di Stefano Marra e sintetizza al meglio lo spirito del libro: una donna, che in realtà sono due e guardano in direzioni opposte; una ha i capelli rossi, l’altra, neri. Questi capelli vanno oltre la cover, accompagnano tutta la parte sterna del libro. Lo sfondo è azzurro, quasi blu, in alto c’è una luna piena, simbolo femminile per antonomasia. Non appena l’ho vista per la prima volta, l’impatto visivo è stato di assoluta coincidenza con il mio lavoro».
Globalmente come lo definirebbe?
«Credo sia soprattutto un libro sulla maternità, sul potere delle madri di plasmare la vita dei figli. Ecco, se devo attenermi a ciò che penso, è chiaro che non sono d’accordo. Il problema, però, non sussiste solo nelle fimmine antiche, come le protagoniste del mio libro, ma persiste, soprattutto nella società siciliana. E questo lo vedo come un cancro da estirpare. Queste due donne in effetti comandano, Lucia, la sperta soprattutto. Le figure maschili risultano essere sempre sbiadite con scarso potere decisionale. Forse era un modo, per loro, per lavarsene le mani e affidare tutte le responsabilità alle donne di casa. Ci sono anche dei personaggi minori che secondo me meriterebbero delle narrazioni autonome: la Palummedda, giovane ricca quando i ricchi erano pochi, che conosceva le sarte più in voga e studiava il tipo di tacco, perché in base a quello, il culo avrebbe avuto un’altra forma, questo mentre la maggior parte delle sue coetanee pativa la fame; la zi’ Immu, provata dalla gobba, avara e acida, che si sposa in tarda età con un uomo bello e più giovane. E poi Vituzi, un pastore con la barba e i capelli lunghi, considerato da tutti un saggio, che segue il ritmo della natura e in esso trova senso al suo lancinante dolore. Di questa natura fanno parte anche gli animali, gli innocenti, sofferenti e inascoltati».
La particolarità è l’elaborazione dei lutti: come li ha risolti?
«I momenti più dolorosi da evocare li ho risolti con dei dialoghi tra i vivi e i morti. Ho capito che tutto il testo che avevo scritto era come un tentativo di dialogo con i morti, con i miei morti. E non perché mi aspetto che possano venirmi a dire qualcosa, ma per trarre delle verità, le loro verità, su ciò che è ormai compiuto, che è irreversibile».
Il romanzo dice tanto anche della zona di Piana degli Albanesi: cosa l’ha portata storicamente a virare verso il paese che sta al centro della comunità arbëreshë siciliana?
«Piana degli Albanesi è per me la nostalgia per mio padre e la nostalgia di mio padre che fuggì da lì perché le proprietà del padre erano minacciate dai mafiosi. È una lingua che non capisco e che non so parlare, un’identità alla quale non appartengo del tutto. E forse è meglio così: so da dove provengo e rispetto quell’ascendenza, ma sono parte del mondo, destinata a mescolarmi con esso senza dimenticare da dove provengo. In fondo è la storia dell’umanità, questo eterno trasformarsi e spostarsi per cercare nuove e migliori situazioni. Pensi che a Sacramento, in California, c’era un quartiere di emigrati di Piana degli Albanesi. Parlarono a lungo la loro lingua. Vent’anni fa arrivarono qui degli americani, discendenti di alcuni miei parenti che erano emigrati proprio lì. È stato divertente accompagnarli a Piana degli Albanesi. Si tratta di tre generazioni dopo quella di chi emigrò. Ovviamente non avevano memoria di quella lingua degli albanesi di Sicilia».
Torniamo alle protagoniste: due donne che rappresentano una la spirtizia e una la babbitudine?
«Queste due donne non hanno avuto la possibilità di dare il loro apporto al mondo del lavoro, dove certamente avrebbero tirato fuori il meglio come professioniste. E allora il luogo dove fare emergere le loro doti era la casa, era la famiglia. Loro, come altre numerosissime donne siciliane di quel tempo».
Si aspettava al suo debutto la gran mole di impegni che le sta dando questo volume?
«Il libro ha avuto un’accoglienza insperata. Io ne ho vissuto l’uscita con puro divertimento e me lo sono goduto. Ricordo numerosi articoli di un certo pregio che mi hanno fatto riflettere su quanto avessi scritto. E anche le presentazioni in giro per l’Italia. Ho iniziato in Sardegna durante la Scuola di critica e letteratura a Castelsardo e da lì ne sono seguite tante altre. E anche dialogare in quelle occasioni sul mio libro è stato un modo per ritornarci, per fare più chiara a me stessa la mia “poetica”, se così si può definire. Ho pure capito di essere divisa, sotto il profilo creativo: da una parte possiedo l’aspetto popolare, dall’altro quello che predilige temi più alti. Sono impegnata in due lavori: uno ispirato alle arti visive e l’altro che si occupa della mia ossessione, ovvero la città di Palermo».
Perché Palermo è ossessione?
«E’ una mia ossessione perché io non sono figlia di palermitani. E tutti quelli che non sono palermitani, per i palermitani sono detti “perincritati”. Ecco, sono orgogliosamente perincritata, anche se sono nata a Palermo. E credo proprio che la maggior parte dei palermitani – anche quelli che additano di “paesanitudine” gli altri siciliani – sia di origine non palermitana. È la bellezza di questa città a ossessionarmi, ma anche la sua perenne decadenza; il trastullarsi dei palermitani in manie di grandezza che poi si rivelano effimere; la loro noia, il loro strascicare le parole, l’essere un paesazzo, in fondo, che non comprendo e che cerco sempre di analizzare. Certo, già di per sé il siciliano è un grande rompicapo. Ma ecco, a Palermo è tutto più esagerato. Ma, meglio di me, lo ha spiegato Leonardo Sciascia in Palermo felicissima. Ovvero un pedencretato come me».
Anche il capoluogo nisseno sembra essere in linea con quanto dichiara su Palermo, lo crede?
«Caltanissetta: anche per quanto riguarda questa città siciliana mi sono rifatta ai ricordi ed esercitata a lungo su fotografie d’epoca. Quando ascolto la parlata nissena ho come un sussulto e provo commozione. Un palermitano proverebbe orrore. Io provo orrore nell’eterno dittongamento vocalico panormita. Ma non voglio esacerbare gli animi con il campanilismo: ci gioco per divertimento con questa storia delle inflessioni!».
Cosa aggiungerebbe per indurre alla lettura del suo esordio chi ancora non lo ha fatto?
«Questo libro parla delle vicende della mia famiglia. Sono rimasta felicemente stupita dalla reazione dei miei cugini. Uno di loro mi ha ringraziato. Ha detto che ho toccato dei punti, ho ricordato delle storie e delle concatenazioni di storie fondamentali e fondanti per la sua vita. Si tratta di un libro che nasce dall’oralità, che vuole portare sulla carta la tradizione orale, il cunto per come poteva essere raccontato, nel modo più verosimile. Si tratta di un tentativo di autenticità, non dico di esserci riuscita, ma di averlo tentato».
E sarà proprio Giovanna Di Marco ad aprire ufficialmente la V edizione di Etnabook, il Festival internazionale del libro e della cultura di Catania martedì 19 settembre, alle ore 18, con la giornata di anteprima presso i locali della Libreria Mondadori del Centro Commerciale Katané di Gravina di Catania. Di Marco dialogherà con Grazia Pulvirenti e Giulia Cacciatore.
Basta la parola, Etnabook si affida all’essenza della comunicazione
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