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Finis Terrae – Lampedusa

Teatro e opera Dal 16 al 21 dicembre al Verga di Catania un apologo sulla povertà, sul destino degli ultimi della terra

La povertà materiale e quella spirituale, di valori, di umanità; la dignità e la discriminazione, la guerra e l’accoglienza, il bisogno profondo, imperioso di speranza… è in questi temi il nucleo palpitante di “Finis Terrae – Lampedusa”, spettacolo nato da un’idea di Antonio Calenda su drammaturgia di Gianni Clementi che il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia si appresta a mettere in scena in collaborazione e nella cornice del Festival di San Miniato.

Si tratta di un apologo sulla povertà, sul destino degli ultimi della terra, perseguitati, forzati alla migrazione sulle nostre coste, dove troveranno però una realtà corrotta dalla superficialità e dalla cultura del benessere e del consumo. Una realtà in cui un uomo vale per quanto possiede e non per ciò che è, e dove nella dilagante indifferenza e nella costante insoddisfazione sta andando perduto il senso della responsabilità e della compassione. È l’assurdo del nostro quotidiano, quello dei fatti di cronaca sempre più cruenti sciorinati da telegiornali che non smettono di enumerare vittime del mare, partite su instabili barconi carichi di “merce” umana, mentre attorno la vita continua a scorrere, senza un sussulto.

In questo gorgo buio del nostro presente indaga “Finis Terrae”, intrecciando – com’è dono della scrittura di Clementi e come vuole la concezione di Calenda – accesa denuncia e leggerezza dei toni, echi danteschi a profili di personaggi che ci appaiono vivi, potenti nella loro verità. Lo spettacolo si apre su una spiaggia battuta da una burrasca: è la notte di Natale, e Cabrieli e Peppe hanno scelto proprio quel luogo sperduto per incontrarsi.

Sono due personaggi gretti e piccoli, delinquenti di bassa lega, contrabbandano sigarette per un’organizzazione criminale e proprio per ritirare un notevole carico sono in attesa su quella spiaggia. Aspettano l’imbarcazione fra il timore di non vederla approdare per il maltempo e l’ansia di essere colti in flagrante da qualche motovedetta. Ciononostante hanno modo di dialogare, e sebbene appartengano alla zona “fortunata” del mondo, si rivelano due infelici. Sconfitti dalla vita, Cabrieli più utopista, poetico, mantiene una propria morale, Peppe più pragmatico appare deluso da tutto, dai suoi stessi figli, che fanno del “possesso delle cose” l’unica motivazione per l’esistenza…

Improvvisamente notano sulla spiaggia un giovane di colore privo di sensi: lo soccorrono e provano a parlargli. Il ragazzo riesce a esprimersi soltanto attraverso il canto, e racconta la dura realtà dell’Africa e il suo sogno di diventare un calciatore di successo e portare la sua sposa in una terra dove ci sia acqua e ci sia pane. Il racconto si spezza con l’apparizione di un barcone semidistrutto che approda con grande difficoltà e libera un terribile carico di persone. Diversi uomini di colore, extracomunitari, una donna incinta e un negriero senza scrupoli, che anche in quella situazione di paura e sofferenza continua a frustarli e a tenerli prigionieri.

Mentre i naufraghi cercano riparo, Peppe e Cabrieli li osservano nascosti: una “sinfonia di sconfitti”, tormentati, battuti, affamati come in un girone dantesco. Ma nonostante le loro disperate condizioni, inaspettatamente riescono a ribellarsi e catturano il negriero, di cui vorrebbero vendicarsi giustiziandolo ferocemente. Il moderno Caronte invoca l’aiuto dei contrabbandieri, i migranti allora trovano la forza di parlare a propria volta e dire le loro storie e ciò che hanno subito. Lo fanno in una scena di grande coinvolgimento, di espressione musicale, totale. Un momento forse finalmente di pietà o almeno di conoscenza indotto da canti e racconti, intessuti della nostalgia per ciò che hanno lasciato al di là del mare, di paura e speranza per ciò che troveranno, di rabbia verso i luoghi comuni che gli occidentali attribuiscono loro, loro che invece hanno storie diverse, di intellettuali o di povera gente, ma accomunati dalla disperazione, dal terrore della guerra e dalla fame. Una fame atavica, che nessun altro lì ha mai dovuto conoscere.

Fra tutti, un pathos straordinario ha il racconto della donna, lacerata negli affetti più profondi, offesa nella dignità, violata eppure portatrice ancora, nonostante tutto, di vita. E mentre ormai il supplizio del negriero sembra inevitabile, è proprio lei a creare un attimo di sospensione. Si piega dal dolore, grida: sta partorendo. Dimenticando le differenze e i rancori, Cabrieli, Peppe e gli altri uomini si prodigano per aiutarla a far nascere il bimbo: un neonato di colore, frutto di una violenza brutale ma bello, e sereno. Un simbolo che sembra richiamare ciascuno di loro all’appartenenza al genere umano. Un miracolo che avviene davanti ad un presepe vivente moderno e poverissimo e che evoca l’unica possibilità che ci rimane: l’amore per gli uomini.

Antonio Calenda sceglie la drammaturgia di un autore contemporaneo di notevole interesse e – nei ruoli dei protagonisti – due interpreti di comprovato talento e in profonda sintonia come Nicola Pistoia e Paolo Triestino, per affrontare, fra onirismo e lancinante verità, temi contemporanei. Ciò assumendo il teatro a luogo che da sempre trova il suo senso più profondo nella rappresentazione delle ingiustizie epocali, nella riflessione sulle oscurità e sui contrasti del mondo: ed il mondo attuale ci chiama con urgenza – basti pensare alle recenti parole e ai molti richiami del Santo Padre – a prendere coscienza della situazione dei diversi, degli ultimi che chiedono riabilitazione e dignità umana. Argomenti estremi e delicati che lo spettacolo saprà toccare attraverso il senso d’ironia e una malinconia esistenziale alta e placata. “Finis Terrae” ha debuttato a San Miniato nel luglio 2014 ed è in tournée italiana.

di Gianni Clementi
regia Antonio Calenda
con Paolo Triestino, Nicola Pistoia
e con Francesco Benedetto

produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Fondazione istituto Dramma Popolare San Miniato

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