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Quel superbo disprezzo per la politica. Parola di Leopardi

Blog Se provassi a raccontarvi il mio disgusto per la politica, mi dareste del qualunquista o del reazionario. Al posto mio invito oggi a parlare il conte Giacomo Leopardi da Recanati, il quale qui dice meglio di me perché a quel mondo senz’anima e senza immaginazione sia da preferirsi quello della scrittura, delle arti, del pensiero che liberamente si muove nel regno del possibile e dell'immaginazione

Se provassi a raccontarvi il mio disgusto per la politica, mi dareste del qualunquista o addirittura del reazionario. E non parlerei solo del miserrimo ceto che in gran parte oggi la esercita, né solo del tornaconto individuale o di parte che la ispira. Parlerei soprattutto dei compromessi di basso profilo su cui inevitabilmente si fonda e i migliori propositi (se ci fossero) si arenano; parlerei del suo adagiarsi sul mondo com’è senza provare a progettarlo diverso e più giusto; parlerei d’un vetusto meccanismo rappresentativo che non rappresenta più, in un mondo decisamente più complesso che nei secoli dei primi esperimenti parlamentari, né me né nessuno di voi.

Ma guai a dire queste cose ovvie senza rischiare il linciaggio. Perciò non parlo affatto. E al posto mio invito oggi a parlare il conte Giacomo Leopardi da Recanati, il quale qui dice meglio di me perché a quel mondo senz’anima e senza immaginazione sia da preferirsi quello della scrittura, delle arti, del pensiero che liberamente si muove nel regno del possibile, dell’immaginazione, della prefigurazione.

La statua a Recanati dedicata a Giacomo Leopardi

Ascoltiamolo: «In fine mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degli individui. Così avviene che il dilettevole mi pare utile sopra tutti gli utili, e la letteratura utile più veramente e certamente di tutte queste discipline secchissime; le quali anche ottenendo i loro fini, gioverebbero pochissimo alla felicità vera degli uomini, che sono individui e non popoli».

E per finire eccolo vibrare due magnifici fendenti, in due lettere inviate a un caro amico e a una donna amata:

«Amami, caro Brighenti, e ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni, che possiedono l’orbe terraqueo. Il mondo è fatto a rovescio, come quei dannati di Dante che avevano il culo dinanzi ed il petto di dietro; e le lacrime strisciavano giù ‘per lo fesso’. E ben sarebbe più ridicolo il volerlo raddrizzare, che il contentarsi di stare a guardarlo e fischiarlo».

«Sapete che io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice composta d’individui non felici. […] I miei amici si scandalizzano; ma io che non presumo di beneficare, e che non aspiro alla gloria, non ho torto di passare la mia giornata disteso su un sofà, senza battere una palpebra. E trovo molto ragionevole l’usanza dei Turchi e degli altri Orientali, che si contentano di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza».

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