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Demetrio Paparoni: «L’arte non morirà mai ma non sa più immaginare il futuro»

Arte Il critico d’arte, tra i più apprezzati e influenti in Italia, è tornato nella sua Siracusa per disallestire la mostra "Medea" che ha raccolto forti consensi: «È stata una prova curatoriale molto difficile». E per presentare il suo ultimo libro, "Come la politica condiziona l’arte", edito da Ponte alle Grazie: «La classe politica ha bisogno del consenso dell’artista come influencer». E sul ruolo dell'arte oggi è tranchant: «Ad immaginare il futuro ci pensa da un bel po’ la scienza»

Demetrio Paparoni è tra i critici d’arte più apprezzati e influenti in Italia. In questi giorni è tornato nella sua Siracusa, perché ci sarà anche lui a disallestire la mostra Medea che per sei mesi, da metà maggio al 31 ottobre all’Antico Mercato, nel cuore di Ortigia, ha raccolto forti consensi per la qualità degli artisti invitati a realizzare espressamente un’opera sul tema euripideo. La sua presenza a Siracusa ha offerto anche l’occasione di presentare a Palazzo Vermexio il suo ultimo libro, Come la politica condiziona l’arte, edito da Ponte alle Grazie e in libreria da pochi giorni. Lo abbiamo sentito, per fare un resoconto sullo stato di salute dell’arte a Siracusa e in Sicilia, e sul coraggio, sull’indipendenza e sulla libertà degli artisti in generale.

Possiamo dire che la tua presenza qui è legata alla nostalgia che avverti per la Sicilia e per Siracusa, in particolare?
«Mi appresto a compiere settanta anni. Con l’avanzare degli anni si acquisisce dignità. A diciotto anni pensi di aver raggiunto la libertà, a settanta avverti un senso di distacco rispetto alle cose. Sono andato via da Siracusa nel 1993. Nei mesi che precedettero l’estate di quell’anno ero sempre in volo perché ero commissario alla Biennale di Venezia, curavo “Italia America/L’astrazione Ridefinita” alla galleria Nazionale d’arte Moderna San Marino e altre cose ancora. Troppi impegni che si sovrapponevano mi convinsero che non mi restava che trasferirmi a Milano. Ma qui, a Siracusa, ho conservato affetti e amici, ci torno con grandissimo piacere. Proprio perché Siracusa mi è mancata molto, in qualche modo per una questione di sopravvivenza mentale ho dovuto rimuoverla dalla mia mente: non puoi vivere a Milano pensando a come sarebbe bello stare da un’altra parte. La rimozione è stata assolutamente necessaria».

Demetrio Paparoni

Com’è nata Medea e, quindi, la tua presenza di nuovo a Siracusa?
«Mesi fa il sindaco Francesco Italia mi ha chiamato proponendomi di curare una mostra. Tra molte perplessità ho accettato. Parlando insieme ho proposto di associare la mostra alla rappresentazione teatrale al Teatro Greco di Medea.  È stata una prova curatoriale molto difficile, perché la mostra include opere perlopiù di grande formato di artisti che vivono in diverse aree geografiche. Auspico che mostre del genere se ne facciano molte altre a Siracusa».



Come hai vissuto questa esperienza?
«Ho dovuto spendermi a livello personale con artisti e gallerie, perché non era possibile fare la mostra e il catalogo che avevo in testa con i soldi che avevo a disposizione. È stata una di quelle situazioni nelle quali o si mettono in gioco i propri rapporti personali, con testardaggine ma anche con amore o, diversamente, una mostra così non la fai. Ci sono anche stati momenti di sconforto per le difficoltà. Ma si trattava di una mostra da fare a Siracusa, nella mia città, e questa cosa l’ho avvertito molto. Ti scatta l’orgoglio. Considera che sono un provinciale e i provinciali sono sempre deboli rispetto alla propria città di origine. Pensa che temevo che all’inaugurazione della mostra non sarebbe venuto nessuno. Quando  ho visto tutta quella gente sono rimasto davvero colpito. Ho rivisto persone di cui mi ricordavo vagamente, ma di cui non ricordavo il nome e la maggior parte di quanti si sono avvicinate a me mi chiamava per nome. Per tutti ero Demetrio e non Paparoni. Questo mi ha veramente colpito.  Da una parte c’era il rapporto con l’istituzione, dall’altra c’era il mio sentimento verso la città in cui sono cresciuto. Così ho pensato di fare a Siracusa anche la prima presentazione in Italia del mio libro. Una scelta sentimentale non strategica, sicuramente non vincente dal punto di vista promozionale, ma era quello che sentivo di fare. E l’ho fatto». 

Paparoni illustra la mostra “Medea” agli studenti dei corsi di Comunicazione e valorizzazione del patrimonio artistico, Fotografia e Scenografia dell’Accademia di Belle arti di Catania

Altri progetti imminenti in città?
«Sì, una piccola cosa nell’immediato di cui sono a conoscenza solo due-tre persone, dove non c’entra l’amministrazione comunale. Però, adesso, mi rendo conto che ho bisogno di rimettere distanza tra me e questo universo sentimentale, per tornare alla mia routine e recuperare lucidità».

Cosa intendi quando dici che a Siracusa perdi lucidità?
«Sto benissimo qui ma, probabilmente, proprio per questo non riesco a scrivere un solo rigo. La mia spinta è vedere gli amici, andare in giro, prendere il sole a Ognina. Quando sto qui sento la città scorrermi nelle vene, penso che, tornato Milano, andrò da un esorcista per far tirare fuori Siracusa dal mio corpo. [Ride] Devo tornare a lavorare ai miei libri, alle mie mostre…».

Un’altra immagine di Paparoni con gli studenti dell’Accademia di Belle arti

Medea avrà un seguito?
«Non lo so. Se avrà  un seguito sarà stato messo un seme, se muore qui per me cambia poco, ma la città senza dubbio ha fame di iniziative di questo tipo».

Il tuo ultimo libro? Il titolo è “Come la politica condiziona l’arte…”.
«Nel libro ci sono critiche che toccano tanto la destra quanto la sinistra. Aderisco a una visione dell’intellettuale che non si schiera con un gruppo ma si schiera  a favore delle cose buone o contro quelle cattive. Se a fare una cosa buona è “il mio peggior nemico” questa va lodata, come va contrastata una cosa cattiva fatta “dal mio miglior amico».

Nella prima edizione del tuo libro, già dieci anni fa sostenevi che l’arte attuale non può essere più essere considerata “avanguardia”.
«È così, non c’è più spazio per l’avanguardia. Non solo l’arte non riesce più ad immaginare il futuro, non riesce neppure ad esprimere nuovi linguaggi. Le due cose, del resto sono correlate. Ad immaginare il futuro ci pensa da un bel po’ la scienza. I temi più “caldi” nel dibattito attuale riguardano la scienza. L’arte può sfidare l’intelligenza artificiale? Ci sono  artisti che usano l’intelligenza artificiale in modo efficace. L’artista futurista, di inizio Novecento, immaginava una città con industrie super produttive, macchine veloci e aerei capaci di attraversare gli oceani. Quale futuro prospetta oggi l’arte? L’idea di un’avanguardia capace di darci una vita migliore – idea una volta dai forti risvolti ideologici –  oggi è gestita dalla scienza. Dio ci aiuti, perché non sappiamo a cosa tutto questo ci può portare. La scienza ci ha “regalato” anche la bomba atomica, non va dimenticato».

Chi conosce solo il titolo del tuo libro potrebbe pensare che… l’arte è finita?
«L’arte non morirà mai perché nasce da un’esigenza vitale. La politica ha sempre tentato di condizionare l’arte ma anche in questo qualcosa è cambiato. La classe politica attuale non aspira a condizionare il lavoro dell’artista ma la gestione delle mostre. La politica non ha bisogno dell’artista proprio perché l’arte non è più in grado di progettare il futuro. La classe politica dominante ha bisogno del consenso dell’artista come persona, come influencer ma questa è ben altra cosa. Il potere politico ha bisogno che a gestire l’artista sia un proprio uomo. Questo è quello che in maniera vistosa fa oggi la destra ma è anche quello che, in maniera più nascosta, ha fatto anche la sinistra». 

Un momento della presentazione del libro di Demetrio Paparoni a Palazzo Vermexio

Cosa pensi di Pietrangelo Buttafuoco alla presidenza della Biennale di Venezia?
«Aspettiamo di capire cosa farà prima di esprimere un giudizio. Chiamerà solo e soltanto uomini che scrivono per le testate di destra o che abbiano le sue stesse simpatie politiche? Oppure, come spero, punterà su temi stimolanti e chiamerà a collaborare critici indipendenti?» 

A chi vuole vivere solo di arte, in Sicilia, cosa diresti oggi?
«Certamente non è facile. Quanto meno non si è avvantaggiati.  Palermo è, senza dubbio, una città ricca di fermenti. È una vera capitale. Avere un ruolo a Palermo non è, però, come avere un ruolo a Milano o a Roma. Nei grandi centri hai sempre la possibilità di fare degli incontri più o meno casuali che si trasformano in opportunità».

Siracusa?
«Sono auspicabili una serie di mostre che diano agli artisti della città occasione di confrontarsi con le realtà contemporanee».



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