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Viva i fumetti di Jac, ribaltamento polemico dei valori e dei linguaggi “sublimi”

Blog Negli anni '50 della mia infanzia le famiglie dabbene di solito proibivano le nuvolette coi caratteri a stampatello perché giudicate anti-educative. Leggevo “Topolino” clandestinamente, sbirciavo in sacrestia nelle pagine del “Vittorioso” dove squillavano i colori accesi e la comicità irriverente di un genio: Jacovitti. I suoi omini grassotteli furono beffardi anti-eroi, cittadini ideali di un’Italia che brechtianamente non abbia bisogno di eroi

Oggi mi va di parlare dei fumetti. Anzi è un dovere: un tardivo atto di giustizia nei confronti d’un nobilissimo genere che solo dagli anni Sessanta gode in Italia degli onori tributati alle altre arti. A sdoganarlo fu il “Linus” di Giovanni Gandini e poi del grande Oreste Del Buono, che assieme ai Peanuts del geniale Schulz importarono Lil’Abner, Dick Tracy, Bristow, Wizard of Id, Feiffer, Andy Capp e così via. E ci regalarono l’erotismo di Valentina e l’esotismo di Corto Maltese. Ma io ero già quasi adulto, arrivavo tardi. E m’ero perso perfino Topolino, per non dire del Grande Blek o di Capitan Miki.

Eggià, negli anni Cinquanta della mia infanzia le famiglie dabbene di solito proibivano quelle nuvolette coi caratteri a stampatello perché anti-educative (definizione e anatema di mia madre), perché a trasmettere “virtute e canoscenza” erano solo i libri con le loro righe ordinate e il loro garbato minuscolo, non quello stampatello vistoso e urlato, buono per ultimi della classe scarsamente alfabetizzati. Unica vacanza consentita: le didascalie e gli ottonari del “Corriere dei piccoli”, l’Italietta in rima del signor Bonaventura e di sor Pampurio arcicontento del suo nuovo appartamento.

Perciò leggevo “Topolino” clandestinamente, al buio sotto le coperte, beccandomi una precoce miopia; perciò sbirciavo in sacrestia nelle pagine del “Vittorioso” che gli altri chierichetti sciorinavano sghignazzando, e ricavandone pensieri non propriamente edificanti. Su quelle pagine spiate squillavano i colori accesi e la comicità irriverente di un genio: Jacovitti.

Cosa ci facesse Jac nelle sacrestie, coi suoi salami allusivi e beffardi, le sue donne poppute e la sua anarchia debordante, me lo sono sempre chiesto, tanto più che la censura democristiana, in fatto di morale ben più occhiuta di quella del Minculpop fascista, vigilava sugli irridenti spropositi, sulla musa felicemente maleducata, sulla truculenta ed esilarante fisiologia di Benito Franco Jacovitti.

Un giovane Benito Jacovitti

Ma l’altra faccia della sua vocazione sovversiva era la disponibilità di Jacovitti, che poteva disegnare la campagna elettorale del missino Michelini come collaborare a “Tango”, il supplemento satirico dell’“Unità”, poteva animare le battaglie di Pannella come prestarsi, dalle pagine del mitico “Linus”, all’oltraggio ricorrente del suo pubblico iper-sinistro: “Fascista!” gli gridavano i talebani di sempre.

Fascista non fu né clericale né altro, né tanto meno (stolta ingiuria anche questa da anni ’60-’70) “qualunquista”. In realtà, come il nostro grande Brancati, anch’egli censurato (e in quegli anni lo furono tutti, da Shakespeare a Totò), e anch’egli irriducibile avversario di tutte le chiese e di tutti i fanatismi, e come un Maccari o un Longanesi, anche l’umile Jacovitti e i suoi omini grassotteli e iperdotati furono in realtà – e a loro modo – liberali e libertari, beffardi anti-eroi e perciò cittadini ideali di un’Italia che brechtianamente non abbia bisogno di eroi, perché dovrebbero bastare (ma purtroppo non bastano) uno sberleffo o una pernacchia a travolgere il Palazzo del potere, i suoi abusi, le sue menzogne.

Nell’horror vacui e nell’ossessione del dettaglio che costringono Jacovitti a riempire fino agli angoli le sue tavole di ometti e donnone, di salami e uccellacci, di gags e insolenze, in una sorta di intreccio caotico e di moltiplicazione iperbolica della corporeità che tracima dalla pagina, sopravvivono il gusto “carico” e il rigoglioso immaginario di matrice popolaresca che mezzo millennio fa, scompostamente irrompendo nella esangue iconografia del classicismo rinascimentale, proliferarono nelle fiere plebee ritratte da Bruegel e nelle enclave dell’inconscio squadernate da Bosch.

Un anziano Jacovitti fotografato da Joe Zatt

In quei grandi come nello strapaesano Jacovitti, nelle loro rappresentazioni sature e smodate, è in atto il medesimo procedimento di “carnevalizzazione”, ovvero di ribaltamento polemico dei valori e dei linguaggi “sublimi”, è in atto la stessa franca e irriverente messinscena degli aspetti “bassi” e fisiologici, degli eccessi sovversivi e licenziosi che le culture contadine e plebee contrapponevano, nel tempo circoscritto e vigilato del carnevale, all’algido e mendace spiritualismo della corte e del tempio. È il sogno dell’albero di cuccagna ad affiorare dai salami seminterrati di Jac, ovvero l’utopia della spartizione egualitaria e del godimento immediato, così come dai suoi caserecci kamasutra e da quei corpi dilatati e aggrovigliati si sprigionano un vitalismo pagano e una comicità fescennina che nessun aspersorio, per fortuna nostra, ha mai potuto né potrà mai redimere: almeno finché una schietta risata sopravviverà al truce conformismo che ci minaccia e una lisca di pesce ammiccherà ancora in fondo a una coloratissima e ingarbugliata vignetta.

Viva dunque Jac, viva le sue stolte e licenziose creature, figlie di Calandrino e di Margutte, di Cacasenno e di Pulcinella, di frà Ginepro e di Pantagruele. Viva i poveri di spirito, perché i loro spropositi meriteranno il regno dei cieli, ma intanto accenderanno le rivolte quaggiù in terra.

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