Poesia e racconti Dalla sua alcova, ristoro enologico e culturale per il viandante come per l'autoctono, il poeta calatino-etneo presenta la sua nuova silloge "Oggetti a valvole", edita da Ensemble, in uscita il 13 ottobre, che punta dritto all'interazione: «Ogni forma di scrittura, da quella commerciale al biglietto del suicida, comporta un destinatario, un incontro con l’altro e l’altrove»
A tratti criptico, ad altri folgorante, ma anche arcano, sussurrato, viscerale, lacerante, ermetico, abissale, nebuloso, barocco, sottile, chiaroscurale, inconsueto, effimero, vibrante e metamorfico. Questo è Enzo Cannizzo e questa è la sua opera. Un po’ calatino di Grammichele e un po’ catanese, Cannizzo è poeta tra i più originali del secolo contemporaneo che ha debuttato nella forma della parola che si stanzia e riposa placida, per scuotere e far vibrare l’anima di chi legge. Nella filiera del libro da oltre vent’anni – già restauratore di carte antiche e poi libraio e dal 2010 impegnato nella gestione di un wine bar all’interno del quale organizza reading di poesia e rassegne culturali animate da figure di rilievo, o ancora emergenti, del panorama artistico e letterario (n.d.a) – con i suoi versi, tradotti su scala mondiale, è entrato di diritto nel firmamento dei grandi poeti, esplorando la complessità ontologica che trasmette significati profondi.

Enzo Cannizzo
Da “Il cielo pende dai lampioni” (Algra, 2020), che si guadagnò una menzione d’onore al Premio Montano, a “Avanza un’ora di luce” (Algra, 2023), il suo nome aleggia dai cieli stellati e sognanti di un qualunque 10 agosto, dove le stelle cadono non per esaudire desideri, ma per disintegrare le certezze, agli inquinati mortiferi prodotti da una qualsivoglia Ilva, che s’erge in progressista speranza. Non è una novità per chi Enzo lo conosce da tantissimi anni, e non è una sorpresa che abbia deciso di rimanere all’ombra, come è nel suo stile di timida scelta, per troppo tempo. Ma tutto volge al cambiamento. Lo scorso anno la romana Ensemble ha pubblicato “Zagare e segreti”, libro finalista al Premio Montano e proposto al Premio Strega Poesia 2025.

Lo scorso 21 settembre, al Palazzo della Cultura di Catania, Cannizzo, insieme con Domenico Trischitta, all’interno della VII edizione di Etnabook – Festival del libro e della cultura di Catania, ha ricevuto dalle mani di Vittorio Lo Sauro – che lo ha incensato del giusto: «Ma lei sa che ci ha raccontato il concetto di vivere, e non di vita, in “Zagare e segreti” con una chiarezza cristallina? Mi onoro di poterla premiare!» – e di Marco Pitrella il Premio “Letto, riletto, recensito!”, che gli è valso anche l’encomio di Pippo Greco, primo cittadino di Grammichele, onorato di riconoscere un’eccellenza del proprio territorio.

Cannizzo, quarto da sinistra, premiato a Etnabook 2025. Alla sua destra Domenico Trischitta e Vittorio Lo Sauro. Alla sua sinistra Marco Pitrella. A sinistra nella foto Salvatore Massimo Fazio ideatore del premio “Letto, riletto, recensito!” di Etnabook
E in quella sede siamo riusciti a strappargli alcune risposte sulla nuova opera “Oggetti a valvole” (Ensemble, pp. 48, € 13), in libreria da lunedì 13 ottobre, e che forse sancisce la definitiva consacrazione, tanto da essere arricchito dal un saggio da maestria di Cettina Caliò e un frammento dell’iconico Miguel Ángel Cuevas.
Il poetico processo creativo di Cannizzo
Ciao Enzo, grazie per averci accolto nel tuo poetico processo creativo. Iniziamo. Nel tuo penultimo libro “Zagare e segreti”, la Sicilia sembra respirare in ogni verso. Questo come i due precedenti connota un forte legame tra la tua terra e la tua poesia.
«La Sicilia, come la scrittura, è una condizione, una ineffabile evidenza all’interno della quale libertà e murata prigione coincidono: tanto più tenti di liberartene, quanto più sei preda del suo sguardo di medusa. “Zagare e segreti” ha due padri nobili, Bruno Schulz, ebreo polacco, con le sue Botteghe color cannella e poi Osvaldo Soriano, argentino. Entrambi, il mitteleuropeo e il latinoamericano, abitati da personaggi tragici e strampalati, circensi confinati in una stanza o sperduti nella Pampa: entrambi sembrano partire da un assunto che è di Tolstoj: se vuoi essere universale, racconta il tuo villaggio. Perciò in “Zagare e segreti” la Sicilia diventa un luogo quasi magico e bislacco nel quale si muovono personaggi mossi dalla corda pazza, dal teatro del vivere e sopravvivere».
Cosa ci aspetta nel nuovo “Oggetti a valvole“?
«In “Oggetti a valvole”, canto in dodici stazioni come lo ha definito con puntuale generosità lo scrittore Valerio Musumeci, la scrittura è rarefatta al punto da regredire, talvolta, al balbettio. La Sicilia, mai nominata, protagonista di una perdita dell’umano per via dell’orfanità di dio e degli dei, è tangibile nella luce dei limoni, nei passaggi dei transumanti, nella gentrificazione della città che, con la forza ineluttabile di un apocalisse in minuscolo, a fuoco basso, rischia di renderla un ogni luogo, un percorso Ikea. Perciò il ricorso a leggende popolari reinventate e ad immagini della mia infanzia, per il dovere della memoria, dell’identità: non quelle sloganistiche della politica becera, ma quelle del sole che ci abita, della fame patita e risolta con la violenza o con il villaggio solidale, quel posto dove insieme si festeggiano le nascite e si piangono i morti».

Uno degli incontri con Cannizzo: il pienone è sempre garanzia (Mondadori BookStore Piazza Roma, Catania)
La luce e l’ombra sono immagini ricorrenti nei tuoi testi. Che ruolo ha la contraddizione nella tua scrittura poetica?
«L’ombra è figlia della luce. Esse sono inscindibili come Demetra e Kore. Forse, più che di contraddizioni, è corretto parlare di interstizi, bisogna esplorare quei luoghi oscuri anche nel pieno della luce. Credo, umilmente, che di questo debba occuparsi una scrittura che non abbia intento consolatorio, che voglia ricordarci che l’altrove è anche qui e ora, nella lama di luce che, mentre rispondo alle tue domande, mi abbaglia l’occhio sinistro senza lambire il destro. Rispondo così anche alla tua terza domanda: non esiste una scrittura che non voglia consolare, non esiste un letteratura che sia consolatoria: natura della parola è proporre dubbi, lemmi dimenticati che arricchiscano la nostra misera possibilità di prensione del mondo: il resto, mi sia consentito dire, è roba da ciarlatani, da demiurghi e improvvisatori che non piangono i desolamenti di Gaza se non per accompagnare uno spritz».
Come nasce una tua poesia? Da un’immagine, un suono, una parola o da qualcosa che non si può spiegare?
«La poesia non nasce, ci abita: poi accade che un lemma trovato scorrendo il dizionario per il solo gusto di farlo, la postura di una donna al bar, la lettura dei versi di un altro, incontrando un tuo stato di grazia, diano il la al gioioso corpo a corpo col foglio: sì, scrivere è, soprattutto, una forma di felicità, un privilegio».

Cannizzo nel 2020 davanti al suo winebar artistico letterario “Città Vecchia” a Catania
Hai esordito in un panorama poetico complesso e frammentato. Come vedi oggi la poesia italiana contemporanea?
«La vedo poco perché è troppa e frammentata: non la poesia, ma quanto pubblicato. Troppi editori, anche dalla storia importante, si sono rassegnati ad un tempo nel quale tutto è uguale a tutto. Non di rado, a leggere i contemporanei, non tutti per fortuna, si ha la sensazione di scorrere una bacheca social che, in quanto tale, non può essere che narcisista e ipertrofica, poco curiosa dell’altro da sé se non come specchio rassicurante. Rilevo, dal mio punto di vista che la Sicilia, forse per il carattere insulare di chi ha avuto la ventura di accadervi, continua ad offrire un panorama più libero: cito Maria Attanasio, cui “Oggetti a valvole” è dedicato, Jano Burgaretta, Franca Alaimo e il fraterno Miguel Angel Cuevas tra i decani, Cettina Caliò e Mariagrazia Insinga tra i miei coetanei. Cito solo loro, ma faccio torto a molti che davvero intendono la scrittura come rischio di perdersi, di uscire da sé».
I titoli delle silloge, come li scegli?
«Nel modo più semplice e ovvio: pesco tra i versi che compongono il libro, non a caso, naturalmente, ma cercando di mettere insieme senso profondo e tentativo di incuriosire il lettore».
Hai ricevuto riconoscimenti importanti, come la finale al Premio Montano e anche la proposta allo Strega. Quanto contano i premi per un poeta?
«Se la poesia conta poco, i premi contano molto».
Nelle tue raccolte si avverte una tensione tra intimità e universalità. Scrivi più per te stesso o per il lettore?
«Diffido di chi, anche in piena onestà, sostenga di scrivere per sé stesso. Ogni forma di scrittura, da quella commerciale al biglietto del suicida, comporta un destinatario, un incontro con l’altro e l’altrove. In fondo sta qui uno dei tesori della poesia: nella costruzione di rapporti tra anime affini, di cenacoli informali e di amicizie salde nel dire no al mondo come ci viene venduto dai media».
Molti giovani poeti faticano a trovare una voce autentica. Qual è il consiglio che daresti a chi inizia oggi a scrivere poesia?
«Leggere i classici, studiare la metrica, bussare ai libri e alla porta dei poeti viventi. Frequentare le biblioteche e pescare a caso nel ricchissimo Novecento, ascoltare i consigli dei librai, meraviglioso esercito pacifico della parola».

Cannizzo, a destra, con Giovanni Miraglia e Maria Attanasio. La foto è di Fabio Navarra
Se dovessi scegliere un verso che ti rappresenta, tuo o di un altro poeta, quale sarebbe e perché?
«Scelgo, senza spiegarlo, quello che apre “Oggetti a valvole”: “Notte tu così chiara fatti crepa”».
La domanda forse più scontata, ben oltre quella sul titolo, non ha ricevuto risposta e a noi Cannizzo piace anche per questo: quel silenzio, delimita spazi infiniti di ricerca e distruzione del superfluo, di benessere e di anti demagogia, di rispetto e di gioia oscurata dalla crudezza del reale: Molti dei tuoi componimenti evocano una malinconia dolce, mai disperata. La poesia per te è una forma di consolazione o di resistenza? Silenzio, le risposte ai contemporanei Cannizzo le consegna invitando a manipolare “Oggetti a valvole”.






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