Blog Nella mia città, Catania, l'imponente mole della Casa circondariale di Piazza Lanza è un vero paradosso. Per molti di noi catanesi, quel carcere, è poco più di un enorme spazio vuoto, anzi, per essere più precisi, è un comodo parcheggio nel cuore della città. Si dice che un giorno in prigione equivalga a un mese della nostra vita. Ma se non hai un parente, un amico o un conoscente recluso lì, nel pensiero dominante quel carcere è popolato solo da fantasmi
Nella mia città, Catania, l’imponente mole della Casa circondariale di Piazza Lanza è un vero paradosso. Per molti di noi catanesi, quella struttura maestosa, completata nel lontano 1910, è poco più di un enorme spazio vuoto, anzi, per essere più precisi, per alcuni di noi catanesi è un comodo parcheggio nel cuore della città. Anche i giganteschi murales che campeggiano sul lato di Via Cesare Beccaria, raffiguranti alcune delle vittime illustri di mafia, non riescono a scuotere questa radicata convinzione. La collettività sembra esorcizzare la sua presenza, preferendo credere che dentro quelle mura non ci sia anima viva. Il catanese può imbattersi la mattina, in prossimità di piazza Lanza, nei parenti in attesa dei colloqui con i reclusi, ma la frenetica ricerca di un parcheggio prevale sempre, e l’immagine di quei familiari svanisce frettolosamente.

I murales sul lato di via Cesare Beccaria del Carcere di Piazza Lanza a Catania
Solo chi, per sventura o per errore, finisce per varcare quella soglia, scopre a proprie spese che il carcere di Piazza Lanza è tutt’altro che abbandonato. Però la percezione comune rimane quella di un deserto, un luogo totalmente disabitato. E anche chi è consapevole della realtà, spesso rimane indifferente alle condizioni di vita dei detenuti. Eppure, i numeri parlano abbastanza chiaro: come pubblica sul suo sito Antigone, osservatorio sulle condizioni di detenzione autorizzato dal Ministero della Giustizia, su dati del Dipartimento dell’Ammministrazione Penitenziaria, a fronte di 279 posti regolamentari, la Casa circondariale di Piazza Lanza ospita mediamente più di 400 carcerati. Sottolinea Antigone nonostante non ci siano problemi di sovraffollamento, la distribuzione delle persone detenute a Piazza Lanza non è omogenea e in tutte le celle visitate non sono garantiti 3 metri quadri calpestabili per ogni persona.
I carcerati di Piazza Lanza secondo l’Osservatorio Antigone su dati dell’Amministrazione Penitenziaria
Il catanese medio però fatica a credere che quel luogo sia così “animato”. Te ne accorgi solo se hai un parente, un amico o un conoscente recluso lì. O, naturalmente, se quel luogo lo frequenti per lavoro: il personale amministrativo, le guardie penitenziarie, le forze dell’ordine, gli avvocati, gli psicologi, i medici, gli infermieri, i volontari e gli insegnanti. Per il resto degli abitanti della città etnea, quel carcere è popolato solo da fantasmi. E in un certo senso, lo sono davvero: non solo non li vediamo, ma non hanno neppure voce.
Si dice che un giorno in prigione equivalga a un mese della nostra vita. I giorni si susseguono tutti identici, con sabato e domenica che appesantiscono ulteriormente la routine, privi di ogni sorta di attività. Le regole di convivenza carceraria sono un universo a sé stante, non spiegate, ma da apprendere in fretta per la propria sopravvivenza. Chi è fortunato lavora o frequenta la scuola interna. Ogni attività un minuscolo appiglio per non impazzire, per non maledire quei cinque minuti di follia che ti hanno condotto a vivere “come una bestia”.

Il carcere di Piazza Lanza a Catania
Non esiste un identikit preciso del detenuto: in carcere trovi di tutto e di più, spesso sono persone segnate dalla povertà e dalla difficoltà. C’è chi si convince di essere lì per uno sbaglio – all’interno delle patrie galere si dice: qui siamo tutti innocenti. Tra la popolazione carceraria, non è raro incontrare chi vive la propria detenzione con la piena consapevolezza che sia l’inevitabile conseguenza delle proprie scelte e della propria condotta di vita. Per alcuni, la prigione non è affatto una sorpresa, ma il risultato atteso di un percorso malavitoso intrapreso. C’è anche chi, dopo anni di reclusione, perde la propria identità esterna e non desidera più uscirne. E poi ci sono tanti, troppi essere umani che preferiscono farla finita piuttosto che continuare a vivere in quell’inferno.
Nel Carcere di Piazza Lanza, non sono solo l’italiano e il siciliano le lingue che risuonano tra le mura. Anzi, all’interno delle celle si crea spesso una sorta di esperanto spontaneo, un vero e proprio crocevia di idiomi, che ricordano una moderna Torre di Babele. L’arabo si mescola allo spagnolo sudamericano, l’inglese al francese, il tutto intervallato da una miriade di dialetti e lingue meno conosciute.
Le carceri italiane sono sovraffollate. Per funzionare, ammesso che questa sia la strada per il recupero di un individuo, dovrebbero svuotarsi. La prossemica è una scienza esatta. E in più essere privati degli affetti più intimi, non vedere i figli crescere, non poter stare accanto ai genitori nei loro ultimi momenti, vivere in cattività, non sono aspetti secondari dell’esistenza umana. Condividere mesi, anni, h. 24, con sconosciuti in spazi angusti lascia un segno indelebile nel corpo e nell’anima.
Ma tutto questo sembra non riuscire a fare breccia nel pensiero del catanese. In città il distacco nei confronti dell’universo carcerario è netto. Solo in alcune notti d’estate, il catanese sembra risvegliarsi da questo “sogno” di invisibilità. Comodamente seduto all’Arena Adua, godendosi un film, può capitare di sentire i detenuti di Piazza Lanza percuotere le inferriate delle loro celle in segno di protesta. Ma dopo pochi attimi, l’attenzione torna al film, e la convinzione che quel luogo sia in fin dei conti del tutto disabitato si riafferma velocemente. Eppure, la privazione della libertà non è un’eventualità trascurabile, né oggi più che mai del tutto remota. Il nuovo decreto sicurezza, con i suoi 14 nuovi reati e l’inasprimento di alcune pene, sembra voler far ripiombare il Bel Paese a tempi nefasti: esprimere dissenso o protestare, anche con azioni non violente, aumenta significativamente la probabilità di diventare uno dei “fantasmi di Piazza Lanza”.
I detenuti vengono a conoscenza della loro scarcerazione tramite una guardia carceraria che però lì dentro viene chiamata “assistente”. Subito dopo, i compagni di cella si adoperano per preparare il “sacco” con dentro tutti gli effetti personali, spesso, in realtà, il “sacco” è una semplice busta di plastica. Poi c’è la regola non scritta del “caffè del liberante”: come ultimo saluto, il detenuto prossimo all’uscita prepara un caffè per i “cellanti”. Tutti concordano che la gioia e l’emozione che accompagnano questo rito sono indescrivibili e di impossibile comprensione per chi è estraneo a questo mondo. Giurano che il sapore di quel caffè rimane impresso a lungo, difficile da dimenticare, dicono che ci voglio giorni e giorni prima che quel retrogusto di caffeina sparisca del tutto. È un momento di pura e autentica fratellanza, un barlume di speranza in un luogo spesso disperato.
Ma nonostante tutto questo, chissà perché, per il catanese medio, quel luogo, colmo di un’umanità difficile da trovare altrove e che solo chi lo ha frequentato può confermare, non esiste, nel suo immaginario quello spazio rimane totalmente disabitato.
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