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Cesare Basile e lo spoken word di sei donne della musica. Ecco “Nivura Spoken”, l’interiore oscuro di ciascuno di noi

Musica Concepito 5 anni fa in pieno lockdown, esce finalmente, grazie alla Viceversa Records, "Nivura Spoken", album che il cantautore catanese ha condiviso con Rita "Lilith" Oberti, Sara Ardizzoni, Nada Malanima, Vera di Lecce, Sarah ElkahlOut e Valentina Lupica, le quali, con la tecnica del spoken word, su una base musicale elettronica, narrano, fra parole loro e prese in prestito, l'interiore oscuro, nero, di ciascuno. Basile: «Era la voglia di lavorare a qualcosa di diverso»

Solo un anno fa era uscito “Saracena”, album “politico” in cui cantava la Nakba, l’esodo degli arabi di Palestina. E rieccolo, 12 mesi dopo, con un nuovo album Cesare Basile, ancora una volta pubblicato dalla etichetta catanese Viceversa Records, con distribuzione Audioglobe, anche se la storia di “Nivura Spoken” risale a 5 anni fa, allo scoppio del lockdown, quando l’isolamento sociale dettato dal Covid ha imposto nuovi stili di vita ma anche nuovi orizzonti, per chiunque. Figuriamoci gli artisti.

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Sette i brani del progetto dove il cantatutore catanese, armato solo di un’elettronica essenziale, dà voce a sei amiche della musica, le quali con la tecnica dello “spoken word”, la poesia orale nata parallela alla scena rock americana, narrano, fra parole loro e prese in prestito, l’interiore oscuro, nero, di ciascuna di loro ma che in fondo è quel filo diretto fra la nostra storia e ciò che accadrà.


Dopo la intro musicale “Nivura”, l’album parte con “U me zogu cor diavu”, testo di Rita “Lilith” Oberti, storica voce dei Not Moving, liberamente tratto da “Sympathy for the Devil” dei Rolling Stones. Segue “Nisun al da na vos”, voce di Sara Ardizzoni, da anni musicista al fianco di Basile, testo liberamente tratto da Byron e tradotto in ferrarese da Matteo Bonazza.

Sara Ardizzoni

“Cosmo” è voce e testo di Nada Malanima. “Aremu rindineddha” è un tradizionale salentino “spokerato” da Vera di Lecce, anche lei presente in molti progetti di Basile. “Frustration” è un testo, musicato da Basile, della rapper Sarah ElkahlOut, palestinese del campo profughi di Nuseirat, nella striscia di Gaza. Di questo brano Giovanni Tomaselli ha realizzato un video. Chiude l’album “Nchiaccatu” con un testo che l’attrice Valentina Lupica ha tratto da Franco Scaldati.

Allora Cesare, come stiamo?
«Bene, dai, abbastanza bene».

Abbastanza? Totalmente bene, io direi, hai un album appena uscito…
«Sì, ma quello non vuol dire niente… Questo disco è stato fatto tanto tempo fa, ai tempi del Covid, tra la primavera e l’estate del 2020. Allora voleva essere, diciamo, un esperimento. Non era nato per essere uno dei miei soliti dischi di canzoni, era la voglia di lavorare a una cosa diversa, dettata dal periodo che era particolare. Allora, poi, avevo poca voglia di suonare la chitarra, stavo iniziando ad appassionarmi all’elettronica, a suoni un po’ diversi. Mi sono inventato questa cosa, ho chiesto a delle amiche di raccontare delle storie e poi attorno a queste storie ho costruito una struttura musicale, usando un po’ di elettronica, un po’ di strumenti autocostruiti, nastri e registrazioni di ambiente. Insomma, mi sono divertito un po’ a mischiare le carte».

Cesare Basile, foto Andrea Nicotra

Il disco, per varie vicissitudini legate al mondo delle etichette discografiche, è rimasto fermo per quasi cinque anni, finché la Viceversa Records ha preso in mano il progetto decidendolo di pubblicarlo con distribuzione Audioglobe. Un album che nasce chiaramente in un contesto preciso, di clausura sociale, e forse questo giustifica un po’ questa atmosfera ovviamente un po’ darkeggiante.
«Sai, essere immuni da quello che ti succede attorno non è pensabile, soprattutto per un artista, che, in qualche maniera, è comunque un amplificatore delle proprie sensazioni e delle atmosfere del proprio tempo. E poi mi sono ritornati dalla memoria, dal passato, i miei periodi giovanili dove si ascoltava tanta musica dark, e questi suoni anche un po’ industrial. Io, poi, musicalmente, non sono proprio un allegrone. La musica l’avverto sempre come un momento di tensione molto forte e spesso la tensione porta a favorire toni drammatici rispetto ad un’atmosfera più leggera».

Vera Di Lecce, foto Claudia Borgia

E poi come la buonanima di Johnny Cash, The man in black, che ami tanto, anche tu ami vestire di nero… Il nero, diciamo, in qualche modo ti appartiene. Queste amiche come le hai scelte, perché loro?
«Sono tutte persone con cui o abbiamo fatto musica insieme o abbiamo condiviso momenti di esistenza. L’unica non musicista è Valentina Lupica, ma con lei ho condiviso esperienze teatrali, abbiamo condiviso l’occupazione del Coppola, è un’attrice dalle forti capacità interpretative, per cui l’ho tirata dentro, visto che mi interessava il racconto che avevano da fare».

Ma anche con la rapper palestinese Sarah ElkahlOut avevi fatto qualcosa?
«Con lei in effetti no. In quel periodo, però, Sarah era in contatto con un mio carissimo amico che le dava una mano, dall’Italia, a fare sentire le sue cose, le cose che scriveva, per cui mi aveva mandato anche del materiale. E ho pensato che una voce di quel tipo poteva assolutamente starci bene in questo progetto, soprattutto considerando che ho giocato molto sulle differenze linguistiche, sui dialetti. Per questo le ho scritto e le ho chiesto di raccontarmi la sua frustrazione».

Sarah Elkahlout

“Frustration” è anche la frustrazione di un popolo…
«Sì, è la frustrazione di un popolo, credo che lei si faccia interprete di quello. Poi sicuramente anche la frustrazione di una ragazza, ai tempi, di 18 anni, che voleva fare la cantante hip hop, e che sa di crescere in una terra difficile, probabilmente questa cosa per lei era molto pesante».

Sai se Sarah riesce ancora a fare musica?
«So che si sta sposando. I palestinesi mi piacciono perché sono teste dure, ha deciso di sposarsi anche in questo momento, perché quello che deve vincere per loro è il futuro. Ed è giusto anche così. Per cui i miei migliori auguri a lei, e le mie peggiori maledizioni a Israele».

A proposito di male, dopo la tua title track musicale, l’album parte con una rivisitazione di “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones, narrata da Rita “Lilith” Oberti. Ma che lingua parla?
«E’ un dialetto delle montagne liguri. Ha preso il testo degli Stones come spunto e ha raccontato una storia, diciamo, simile a quella della canzone. Va da sé che se cambi la lingua di un testo lo riscrivi. Ed ecco che in “U me zogu cor diavu” la “Sympathy” diventa il gioco con il diavolo».

Rita Lilith Oberti

Vedo che continua l’amicizia, e la collaborazione, con Nada.
«Sì, anche lei mi sembrava assolutamente doverosa per la squadra. Nada ha un timbro di voce così particolare, e non solo quando canta. Anche quando parla, quando ti racconta le cose della sua vita, o ti racconta una barzelletta. Ha sempre questa capacità di rendere tutto molto vivo. E poi lei è l’unica che ha raccontato in italiano. Mi ha detto che per lei la sua lingua dell’infanzia è stata l’italiano, e quella avrebbe usato. Il gioco era quello, no? Vedere se la lingua dell’infanzia, chiamiamola così, aveva una potenza nelle voci di ognuno di loro. E secondo me la cosa ha funzionato».

Nada Malanima

L’unico brano “siciliano” è “Nchiaccatu” di Valentina Lupica, omaggio al drammaturgo palermitano Franco Scaldati, con quest’uomo che, “mischino”, pende…
«… impiccato, esatto».

Valentina Lupica

Per una non palermitana il palermitano di Scaldati non sarà stato facile…
«Anche se originaria di Mazzarino, e catanese d’adozione, Valentina ha lavorato come attrice a Palermo. E Scaldati fa sicuramente parte del suo bagaglio».

Questo album – che adesso esce in cd, streaming e in versione super limitata (60 copie) anche in musicassetta -, che vita avrà?
«Non lo so, non avevo mai pensato di farlo dal vivo. Anche se ora me lo sto chiedendo come potrei suonarlo da vivo».

“Nivura Spoken” esce anche in musicassetta, ovviamente in tiratura limitata per appassionati

Soprattutto con o senza le cantanti?
«Ecco, con loro diventa difficile perché dovrei portare sei persone in giro, soltanto per fare un pezzo a testa, diventerebbe un po’ un casino».

Parafrasando Pirandello, sarebbero sei personaggi, non in cerca, ma con un autore. E che autore…
«Non escludo che magari, mentre saremo in giro a suonare, qualcuna di loro potrebbe essere vicina. Ci sto ragionando, c’è sempre qualcosa da poter fare, ma non so bene cosa. Mi piacerebbe anche rispettare un po’ la forma di questi brani, non una forma musicale, per cui ci studierò. È anche una bella sfida, dai, un bel gioco col diavolo, come sempre».

Quindi non sentiremo nulla di questi brani nel tuo set dal vivo di domenica 18 maggio al Teatro Coppola di Catania con Riccardo Napoli, per il festival di musica autocostruita “Clustergong”…
«No, questa cosa che facciamo al Coppola è un festival dedicato agli strumenti autocostruiti e le performance saranno create proprio attorno agli strumenti autocostruiti, per cui ci sarà molta improvvisazione, molto rumore. Una cosa decisamente sperimentale. Anche Riccardo Napoli da tempo bazzica questo mondo. Lui nasce come batterista, ma poi è cresciuto tantissimo come musicista e improvvisatore. Anche Riccardo ama cercare sonorità diverse, tirare fuori da strumenti vecchi sonorità nuove, che è un po’ quello a cui mi sono dedicato anch’io negli ultimi anni. Vediamo un po’ quello che succederà».

Che tipo di strumenti metterai in esposizione per il festival?
«Un po’ delle cose che ho costruito in questo periodo. Non sono strumenti “intonati”, mettiamola così, sono più strumenti che vengono fuori da diversi rumori, usando metalli, molle, materiale riciclato. Che messo e rimesso insieme, decontestualizzato, diventa uno strumento con una nuova vita».

Uno strumento autocostruito da Cesare Basile

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