Blog Due grandi libri per quest'estate appena iniziata, due libri esaltati, ma fraintesi, dal cinema. Due bei film, certo, il "Dottor Zivago" e "Lawrence d’Arabia", entrambi di David Lean, che negli anni Sessanta li ricavò dai due libri facendo sognare noi adolescenti. Ma il romanzo di Pasternak non era solo un romanzo d’amore come il film lo riscriveva, e le memorie romanzate di Lawrence non erano solo, come il film le faceva apparire, un bell’esempio di narrativa d’avventura
Un classico per l’estate, anzi due. Due grandi libri esaltati, ma fraintesi, dal cinema: Il dottor Zivago di Boris Pasternak e I sette pilastri della saggezza di T. E. Lawrence.
Due bei film, certo, il Dottor Zivago e Lawrence d’Arabia, entrambi di David Lean, che negli anni Sessanta li ricavò dai due libri facendo sognare noi adolescenti, pronti a innamorarci dell’azzurra malinconia degli occhi di Julie Christie e a bramare di seguirla nella steppa gelata, pronti a identificarci nello sguardo trasognato di Peter O’Toole e ad affrontare con lui il deserto sotto la bandiera d’un folle sogno.
Ma il romanzo di Pasternak non era solo, o non era affatto, un romanzo d’amore come il film sontuosamente lo riscriveva, e le memorie romanzate di Lawrence non erano solo o non erano affatto, come il film le faceva suggestivamente apparire, un bell’esempio di narrativa d’avventura.
E cominciamo da Zivago. Dimenticate le musiche ruffiane di Maurice Jarre, dimenticate le balalaike e i girasoli che si sfogliano ai primi tepori del disgelo, dimenticate gli occhi febbricitanti di Sharif e l’alternativa Tonia-Lara che quasi ci convinse a lasciare le brave fidanzate del tempo per sconosciute misteriose e sfortunate. Preparatevi invece ad affrontare una narrazione che alla struttura solida e complessa e al potente respiro epico dei romanzi di Tolstoj unisce i rovelli problematici e le impennate profetiche di quelli di Dostoevskij.
E allora scoprirete che Il dottor Zivago è un romanzo antico e moderno, è il capolinea della grande tradizione russa dei “folli di Cristo” e degli starets, dei nichilisti e dei populisti, delle “anime morte” e dei “demoni”, delle iconostasi e dei giardini dei ciliegi malinconicamente sfioriti nella tormenta della storia. E contiene pagine folgorate da un profondo senso religioso: quelle sulla “musica” che Gesù fa irrompere nella storia, quelle sulla resurrezione e sulla immortalità, quelle sul mistero dell’individuo e sulla conversione dei popoli, frutto di quel sontuoso e tragico sentire tipico del cristianesimo ortodosso, con le sue meravigliose liturgie e i suoi pensatori (si pensi a un Pavel Florenskij) deportati e decimati dal comunismo.
Ma è anche, Il dottor Zivago, un affresco storico come solo la letteratura sa e può offrirne, libera com’è dagli angusti determinismi degli storici, dai pregiudizi degli apologeti e dei detrattori. E nelle sue pagine tormentate la Russia pre- e post-rivoluzionaria freme nei suoi fervori e nelle sue incertezze, nei suoi feroci parossismi e nei suoi stremati languori: ritratta ad altezza d’uomo e nel caos della mischia, laddove degli eventi in tortuosa evoluzione il senso si sgrana e si disperde, e si riduce a gesti inconsulti e grida di dolore. Nessuno come lo sgomento Zivago, che pure l’assecondava ma come vittima sacrificale, ci potrà mai dire cos’è veramente stato il comunismo bolscevico. E nessuno meglio di lui potrà insegnarci che l’atteggiamento giusto per leggere i contorti meandri della storia è una commossa e sconfinata pietas.
Da uno scenario all’altro: le vaste e infuocate distese desertiche, le tende fumose d’oppio, i profili arabi assorti e maliziosi descritti da Thomas Edward Lawrence, il mitico “Lawrence d’Arabia”. Memorie? Certo, ma scritte dopo che l’autore-protagonista aveva perso, nelle sue traversie intercontinentali, sia i copiosi appunti accumulati nel corso di tante avventure sia la prima stesura del libro, che perciò dovette ricomporre in equilibrio fra ricordo ed estro narrativo. Romanzo, perciò; sulla linea della grande narrativa inglese dei Conrad, Stevenson, Kipling ma con un sovrappiù di coinvolgente immediatezza offerto dall’esperienza diretta, e irrobustito da un protagonismo che, dall’avventura vissuta dall’astuto diplomatico inglese e dal leader trascinatore della rivolta araba, si travasa in una affabulazione traboccante, in una narrazione avvincente, in una osservazione ravvicinata di costumi, fedi, caratteri e mentalità dei popoli del deserto.
Una romanzesca antropologia, dunque, che fa riflettere sui destini collettivi, ora che quei popoli bussano alle porte dell’Occidente.
Nell’impetuosa avanzata dell’Islam, infatti, perfino nel più agghiacciante degli attentati, a me sembra che si consumi la rivincita della religione del deserto come Lawrence la ritraeva nei suoi adepti puri e feroci, e più in generale del monoteismo semitico (ebraico, cristiano, musulmano) di cui tutti noi siamo figli immemori. Nemico del mondo e della carne, degli interessi e delle idee, gelido come lo sguardo dei profeti e prosciugato come i loro corpi, devoto al suo Dio astratto e muto, al suo Dio puro essere, quel credo uno e trino dai deserti si riversa oggi sulle città opulente e ingiuste col suo sogno inflessibile e immateriale.
E vincerà. Perché il suo Dio è più forte dei nostri dei minimi e fungibili, dei nostri idoli consumistici, delle nostre fedi concilianti e fai-da-te.
Lo sapeva bene Lawrence, e perciò occorre rileggere i suoi Sette pilastri: per compitare nei sussulti del passato i segnali delle apocalissi del futuro. Ultima avvertenza, per i (ri)lettori futuri: Il dottor Zivago è anche un romanzo d’amore; e I sette pilastri della saggezza è anche un libro d’avventure.
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